di Bruno Giorgini
Parigi 31 maggio-9 giugno 2014. Quando scendo nella ville lumiere un numero campeggia, il 3% di gradimento ottenuto da Hollande nell’ultimo sondaggio per una sua eventuale ricandidatura. Soltanto 3 (tre) francesi su 100 (cento) auspicano che Hollande si ripresenti candidato alla Presidenza della Repubblica nel 2017. Uno sprofondo che supera ogni più pessimistica previsione. Più o meno quanto prenderebbe anche un illustre sconosciuto se si presentasse, vuoi mai tre strampalati su cento si trovano sempre. Un numero infimo e impietoso.
Hollande finisce ultimo tra i possibili candidati socialisti, Manuel Valls, attuale primo ministro, Ségolène Royal, Martine Aubry, Arnaud Montebourg. Se poi il campione si restringe agli elettori socialisti le cose non migliorano, seppure lo score salga al 15%, cioè soltanto 15 elettori/trici su cento che lo votarono non più di due anni fa, lo vorrebbero nel 2017, e comunque Hollande sempre ultimo rimane tra i papabili del PS. Questo risultato, seppure virtuale, dice che il re è nudo, ovvero che ormai si pone un problema che attiene direttamente il Presidente della Repubblica, cioè il cuore dello stato, l’Eliseo più che il luogo supremo del comando, se si preferisce della governance per la cosa pubblica, apparendo come Fort Alamo assediato.
Ma il Presidente è intemerato e così risponde: “Io sono sufficientemente saggio e sperimentato in politica per sapere che noi non siamo che nel 2014 e che la questione presidenziale non si pone oggi”. Sembrerebbe un gag, ma invece lo ha detto sul serio. Quindi abbondando in retorica, durante l’inaugurazione di un museo dedicato a Pierre Soulages, un pittore francese che incalza il nero dell’universo su grandi tele, si lascia andare “Noi abbiamo in Francia il più grande artista vivente del mondo”, per tracimare fino a: “Dal nero sorge la luce. Noi creiamo ciascuno a suo modo. L’artista, l’imprenditore, l’operaio, il protagonista politico… Ciascuno crea. E da questo nero si sprigiona una luce, quella della speranza che noi dobbiamo portare gli uni agli altri, per la Francia”.
Mentre Hollande si distendeva nel suo lirismo da liceale alla soglia del diploma, fuori circa duecento persone manifestavano e i CRS, i corpi di polizia di repressione a massa, li respingevano lontano dall’evento a colpi di lacrimogeni. In contemporanea Philippe Vincon, consigliere di Hollande per l’agricoltura, veniva durante qualche ora trattenuto per un “colloquio” da militanti della Confédération Paysanne, l’organizzazione contadina fondata da Josè Bovè, oggi deputato europeo nel gruppo verde. Intanto nel campo dei dirigenti socialisti uno dice riferendosi a Hollande “il rischio è che diventi inesistente”. Altri nel gruppo socialista dell’Assemblea Nazionale – la nostra Camera – lo definiscono “autistico”, “sordo”, “ottuso”, mai un Presidente della V Repubblica era stato così virgolettato da un giornale autorevole come Le Monde. Ancora riferendosi alla sconfitta socialista nelle elezioni municipali di marzo sempre tra virgolette ascoltiamo un ministro: “Monsieur Hollande ha distrutto la sua propria base, l’armatura hollandese del partito. È il più grande piano sociale (si intende di licenziamenti, ndr) della storia del PS, con migliaia di eletti e di collaboratori a tutti gli effetti disoccupati”.
E potremmo continuare a collezionare dichiarazioni tutte più o meno delle stessa natura, fino alla previsione di un eletto socialista: “Hollande finirà solo nel mezzo delle rovine della sua politica. Sarà l’uomo felice della desolazione”. In termini più politici, dopo le batoste subite dal PS alle municipali e alle europee, si può dire che Hollande è debole rispetto al suo governo e al Primo Ministro, è debole di fronte alla sua maggioranza parlamentare, è debole nell’apparato del partito, è debole in seno a una sinistra debole, è debole rispetto alla sua credibilità nell’opinione pubblica francese, è debole in Europa e più in generale a livello internazionale.
Di fronte all’affaire BNP Paribas, la grande banca francese inquisita dalla Giustizia USA per violazione delle regole attinenti le transizioni finanziarie che, se fosse giudicata colpevole come pare probabile, praticamente sono stati presi con le mani nel vasetto della marmellata – leggi il petrolio iraniano e altre bazzecole – potrebbe trovarsi a dover pagare una ammenda di 10 (dieci) miliardi di dollari, se non più, ebbene la grandeur francese, e il suo Presidente, altro non riescono a fare se non “appellarsi alla clemenza degli Stati Uniti”, come un qualunque avvocato della difesa senza argomenti solidi: un po’ poco per la politica estera di una potenza nucleare che siede membro permanente con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Da ultimo Hollande è debole rispetto a Marine Le Pen e al FN che lo marca stretto, con un calcio negli stinchi al giorno. Però acclarato che Hollande appare coram populo largamente sottodimensionato rispetto alla carica che occupa e al potere che la Costituzione della V Repubblica gli assegna, domandiamoci come sia potuto succedere che l’ uomo vincitore delle primarie socialiste e delle elezioni presidenziali contro un avversario della taglia di Sarkozy, una volta giunto al vertice non ne abbia azzeccata una, ma proprio nessuna in politica, per non dire delle sue male figure sul piano personale, con l’amante sbattuta in prima pagina e lui, le President, fotografato sul sellino di uno scooter ricoperto dal casco integrale, stile anche qui giovane liceale in fuga d’amore con scappatelle accluse. Io me lo spiego attraverso un storia.
In tempi passati, appassionato dilettante di scacchi, ebbi la fortuna di conoscere Karpov, al tempo campione mondiale, passando con lui e il suo entourage un paio di giorni in attesa di partecipare, lui, a un torneo internazionale con esibizione finale del campione in una multipla, l’uomo solo contro venti scacchisti, dai dilettanti di genio ai professionisti nazionali e internazionali. Torneo organizzato da un mio amico che mi aveva invitato come osservatore in quel di Corfù, isola meravigliosa. I due giorni li vivemmo nuotando, prendendo il sole e mangiando, mentre io cercavo di capire come Karpov si preparava, osservandolo e interrogandolo.
Lui serafico e paziente crogiolandosi al sole, rispondeva a monosillabi, poi venne la meraviglia di quelle venti partite in contemporanea, quasi tutte vinte, alcune pareggiate, nessuna persa, in una concentrazione di intelligenza/e che potevi toccare. Il nostro campione aveva un consigliere, allenatore, collaboratore con cui metteva a punto le strategie, un uomo che degli scacchi sapeva tutto, ricostruendo senza scacchiera a memoria le mosse di partite classiche anche di venti trenta anni prima, nonchè introducendo variazioni impreviste di cui discuteva col maestro. A un certo punto, parendomi molto molto bravo per quel che potevo capirne, gli chiesi perchè non giocava in proprio. Grosso modo rispose così.
“Se adesso facessimo una partita tu e io, probabilmente perderei. Gli scacchi sono un gioco molto violento, dove una intelligenza deve distruggere l’altra con una serie di mosse, ognuna delle quali può valere la vittoria o la sconfitta, agendo la presa del potere e l’abbattimento del re avversario o subendo lo scacco matto. La forza psicologica è fondamentale. Quando io mi trovo nella situazione concreta dello scontro, dovendo prendere una decisione mi arrovello su tutte le scelte possibili fin quando, dopo un tempo quasi sempre troppo lungo – e il tempo negli scacchi è fondamentale, guarda caso come in politica, nella sua essenza la politica è tempo, tempo debito – muovo un pezzo, ma sempre col dubbio di avere sbagliato, dubbio che si ingigantisce nel corso del gioco, quindi rendendo ogni decisione più lunga, fino a mettermi in uno stato di panico che vieppiù mi paralizza l’intelligenza, la oscura.
Così in una sorta di catena perversa arrivo a uno o più sbagli, spesso plateali e/o talmente evidenti e grossolani da farmi vergognare, per cui mi ritiro. L’ultima partita con un avversario medio mediocre l’ho fatta qualche anno fa, uscendone stracciato. Secondo Kierkegaard la decisione è una follia, che mi fa diventare matto aggiungo io. Una cosa è osservare da fuori una partita, senza coinvolgimento diretto, in piena libertà di spirito, un’altra è scendere sul campo di gioco lottando pezzo dopo pezzo, quadrato dopo quadrato – le case – bianco o nero. Non ce la faccio.Non ho l’anima, la mente, i nervi, il cuore, la metta come vuole, per questo”.
Ecco, la stessa sindrome mi pare possa applicarsi a Hollande, che di fronte allo scontro – la politica non scordiamolo mette a rischio spesso la vita – non riesce a reggere il conflitto. La politica è lotta per il potere, e conflitto continuo, senza armi almeno in democrazia ma con un alto tasso di violenza intellettuale, scelta di tempo e decisione. Credo che lì al bivio delle decisioni, quando il mondo si biforca e bisogna decidere che mossa fare Hollande vada in panico, ritirandosi in sè stesso, l’autismo di cui molti lo accusano essendo la sua estrema forma di difesa. Ma forse questa supposta spiegazione è improbabile, chissà.
Resta comunque sul terreno una sinistra ridotta in tutte le sue componenti al 32%, e un Primo Ministro Manuel Valls che nell’ossessione di raggiungere la destra fino al FN per occuparne lo spazio, arriva a proclamare che non è più un tabù discutere dell’eventuale ritiro della nazionalità a coloro che, naturalizzati, si sono, per così dire, comportati male. Una idea che quando fu proposta da Sarkozy in via di ipotesi, lo stesso Valls qualificò come “nauseabonda e assurda”. Difatti introdurrebbe un criterio semplicemente razzista e discriminatorio tra i cittadini franco francesi, cioè nati da genitori francesi, per cui la nazionalità francese sarebbe permanente qualunque delitto compiano e/o cattivo/asociale comportamento tengano, e quelli nati da genitori non francesi, ma in terra di Francia che secondo lo ius soli acquisiscono la cittadinanza o nazionalità che dir si voglia al diciottesimo anno d’età, avendo comunque negli anni precedenti gli stessi diritti dei bambini e ragazzi franco francesi, nazionalità che invece sarebbe revocabile sulla base essenzialmente di criteri politici di congrenza con il pensiero e i comportamenti dominanti.
Una deriva allucinante specie se incarnata da un Primo Ministro sedicente socialista. Vorrei però concludere con una buona notizia, sia pur piccolina almeno per ora. Un gruppo molto qualificato di economisti e studiosi ha svolto un audit sul debito pubblico, e i risultati sono parecchio interessanti. Tornando a Valls egli è anche, manco a dirlo, l’alfiere dell’austerità, proclamando con sicumera: “da oltre trentanni viviamo sopra i nostri mezzi”, sottintendendo che il debito della Francia è causato dall’eccessiva spesa pubblica. Ebbene no ci dice il CAC (Collectif pour un Audit Citoyen), il debito è per ben il 59% dovuto a due fattori: la riduzione delle entrate soprattutto diminuite per effetto dei “regali fiscali” fatti dai governi di destra alle classi più abbienti, e i tassi d’interesse eccessivi attraverso cui lo stato si è finanziato sul libero mercato, favorendo così tra l’altro la speculazione finanziaria e la debolezza del bilancio pubblico divenuto ostaggio della finanza privata. L’analisi è molto fine e dettagliata, c’è da sperare che diventi materia di coscienza e lotta di massa, non sarà facile ma almeno una verità viene stabilita. A noi il compito di renderla conosciuta e evidente per tutti, o molti, e di rifare la stessa cosa, audit pubblici sul debito, in ogni paese europeo.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online