di Stefano Feltri
Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza – Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi). Non se n’è accorto nessuno. Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon, da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più grande di Marx.
Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati accademici.
Piketty è interessante per due ragioni: le sue idee e l’improvvisa popolarità che rivela come la sua analisi abbia risposto a una domanda di senso inespressa, ma percepibile in un momento in cui non ci sono più ideologie e neppure molte idee. Nel suo libro Piketty parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità.
Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100. Il Nobel Robert Solow, su New Republic, sintetizza così il ragionamento: “Piketty suggerisce che la crescita globale dell’output rallenterà nel prossimo secolo dal 3 all’1,5 per anno. Fissa il tasso di risparmi/investimenti al 10 per cento. Quindi si aspetta che il rapporto tra capitale e reddito crescerà fin quasi a 7”.
Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media. No, è la dinamica interna dell’economia: se il capitale (Piketty usa capital come sinonimo di wealth, cioè patrimonio, ricchezza) cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi.
Gli attuali super stipendi dei top manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere). Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe. Al 10 per cento più ricco degli Stati Uniti nel 1913 faceva capo il 40-45 per cento del reddito prodotto in un anno, nel 1948 la quota era scesa al 30-35 per cento e da qui è nata la “curva di Kuznets”.
Ma Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale. Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. Nessuno ha preso sul serio questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile, servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra invincibile. Tanto che i critici più liberisti, come Carlo Stagnaro sul Foglio, hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa . Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it’s the economy, stupid.
Piketty è un economista atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche che sono la premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo, usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia.
Sul Financial Times Martin Wolf ha notato che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva che un certo tasso di disuguaglianza fosse accettabile se ne traevano beneficio anche gli ultimi della scala sociale. C’è una consistente letteratura sul perché società troppo polarizzate funzionano male: due epidemiologi, Richarld Wilkinson e Kate Pinkett, qualche anno fa hanno dimostrato il legame tra disuguaglianza e varie cose sgradevoli (aborti, obesità, droghe, hanno escluso i suicidi perché la depressione nelle egualitarie società scandinave avrebbe indebolito le conclusioni).
Piketty ha cambiato la scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo. Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito. Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”.
Questo articolo è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano il 7 maggio 2014