di Marco Nurra
La domanda/risposta che ha suscitato maggior polemica è la sedicesima, riguardante la retribuzione del lavoro giornalistico. “Il lavoro deve essere sempre pagato?”
“[…] Io non credo che il lavoro debba essere pagato. Io credo che qualunque tipo di lavoro possa conoscere anche delle retribuzioni, delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate. Trovo bizzarro che noi stessi che andiamo dicendo che la nobiltà del nostro lavoro deriva da altri fattori, come il servizio alla comunità o la qualità dell’informazione, poi pretendiamo allo stesso tempo che questi aspetti vengano quantificati in sistemi economici e monetari. No, esistono quantità di altre motivazioni e occasioni in cui possiamo liberamente lavorare gratis senza sentirci sfruttati. Anche io, qui, al Festival del giornalismo, lavoro gratis […]” continua guardando il video min. 54:55
Il senso dell’affermazione/provocazione di Luca Sofri è che la retribuzione monetaria del lavoro non deve essere “un assioma”, perché esistono anche altre “motivazioni”, per cui non bisogna essere “ideologici” su questo aspetto. Non perderò tempo a ricostruire la polemica nata in seguito a queste affermazioni, anche perché Sofri (a mio giudizio, sbagliando) ha chiuso le porte a qualsiasi dibattito o approfondimento, limitandosi a pubblicare questo post, che poco apporta rispetto a quanto già detto dal giornalista. Quindi se avete visto il video (guardatelo) potete benissimo partire da lì per capire di cosa stiamo parlando.
Preferisco approfittare di questo spazio per spiegare perché non sono d’accordo con quello che dice Sofri. Perché io credo che il lavoro debba essere pagato. E penso che questo concetto debba essere un assioma per qualsiasi direttore di giornale.
Conosco molti giornalisti, professionisti e non, che specialmente agli inizi hanno deciso di lavorare gratis spinti da altre motivazioni. Normalmente, oltre alla visibilità e alla soddisfazione personale, la motivazione ricorrente che spinge a una scelta di questo tipo è molto più pratica: “un giorno, forse, (qualcuno) inizierà a pagarmi”. L’opportunità della visibilità vista come trampolino di lancio, quindi. La speranza che un giorno questa ingiustizia finisca. Perché, parliamoci chiaro, di ingiustizia si tratta. Se io produco contenuti per un giornale che genera ingressi è giusto che venga retribuito. Questa dev’essere la regola, non l’eccezione.
Non sono qui per giudicare chi decide di scrivere gratis per un giornale. Se io ho pubblicato pochissimi articoli senza essere pagato (credo 2, massimo 3) è anche perché ho avuto la grande fortuna di incontrare dei caporedattori contrari al lavoro non retribuito. E questo ha influito molto nel mio modo di concepire il mestiere del giornalista. Ricorderò sempre quando proposi il mio primo articolo per l’Espresso ad Alessandro Gilioli (ancora non ci conoscevamo personalmente, ma lui leggeva il blog L’isola dei cassintegrati e ci aveva intervistato qualche mese prima). Avevo scritto un pezzo sulla protesta dei lavoratori della Vinyls di Porto Torres che da 6 mesi occupavano l’Asinara, un aggiornamento sulla vertenza dimenticata dai media con l’arrivo dell’estate. Mi sarebbe piaciuto vederlo pubblicato sull’Espresso, sia per la visibilità che avrei potuto dare alla causa dei cassintegrati sardi, ma anche per la soddisfazione personale che ne deriva. Gli mandai il pezzo dicendogli che se erano interessati a pubblicarlo io ero disposto a cederlo anche gratis.
Alessandro mi rispose (copio e incollo dalla sua mail del 2010):
“Preso. Grazie!
P.S. può essere poco, ma qui si paga sempre qualcosa: sono deontologicamente contrario al lavoro gratuito!”
Ecco, con il tempo ho capito che un caporedattore/direttore che apprezza il tuo lavoro e vuole darti un’opportunità si comporta così. Oltre a Alessandro (con cui è nato poi un rapporto di stima reciproca al di là della relazione lavorativa), ho conosciuto altri professionisti che la pensano allo stesso modo: nella redazione de El Mundo dove ho fatto lo stage di un anno (pagato) e con cui ho collaborato poi per un breve periodo (pagato), per esempio. Quindi, curiosamente, quelli che per Luca Sofri sarebbero ideologici, per me sono persone molto pragmatiche e con un grande rispetto per il lavoro altrui. E sono contrario pure al fatto che un giornale con poco budget offra la possibilità a un giornalista di pubblicare gratuitamente una sua inchiesta (non sto parlando di blog personali, ma di articoli/inchieste per la testata). Perché alla lunga, che si voglia o no, questo diventa un metodo e non un’eccezione.
Quando due anni fa questo blog è diventato partner dell’Espresso, io e Michele Azzu abbiamo deciso che da quel momento non avremmo accettato nessuna collaborazione gratuita. Perché sarebbe profondamente ingiusto che un sito che genera un ingresso monetario per due persone (seppur minimo) viva grazie a giornalisti che scrivono per te senza essere pagati. E pur non avendo budget abbiamo pubblicato una ventina di inchieste scritte da alcune collaboratrici e collaboratori. Li abbiamo pagati 50 euro a pezzo, con ritenuta d’acconto. Di tasca nostra. Perché è giusto così. Perché il loro lavoro ha arricchito il nostro sito. Perché se volevamo i loro articoli DOVEVAMO pagarli. Anche se loro erano disposti nella maggior parte dei casi a pubblicarlo gratis. In questi anni abbiamo ricevuto molte proposte (e curriculum) di persone disposte a collaborare con noi gratuitamente e quando non potevamo pagare abbiamo rifiutato, spiegando il nostro punto di vista. Che pensiamo sia quello corretto.
Questo articolo è stato pubblicato dall’Isola dei cassintegrati il 7 maggio 2014