di Giuseppe Scandurra
Da quando è diventato un’attività di massa il calcio è sicuramente tra gli sport più rappresentati nella letteratura e nella cinematografia occidentale. Oggetto di scrittura non solo di una letteratura “romantica”, “epica”, “popolare”, ma anche materia di riflessione per filosofi e poeti. Per questo molti sociologi e antropologici hanno concentrato il loro sguardo sul calcio, anche come possibilità, forse l’ultima, di scrivere quanto di conflittuale sopravvive nella nostra cultura, occidentale ed europea, apparentemente pacificata. Inoltre, negli ultimi anni, tale interesse verso questo sport è comprensibile in relazione ad un altro fatto: il calcio, infatti, ha un suo social problem, ovvero la violenza degli ultras.
Dagli anni Settanta, nei principali giornali, sportivi e non, locali e nazionali, questi “tifosi estremi” sono stati rappresentati come “teppisti”, “delinquenti”, “estremisti”, “pazzi”, “psicopatici”. Rappresentazioni che non hanno mai permesso di capire quale sia il punto di vista di queste persone quando agiscono le loro pratiche giudicate dai media come “violente”. Rappresentazioni che, tra l’altro, non nascono certamente nei nostri giorni se pensiamo che a Bologna, il 10 marzo 1580, venne emanato un bando in cui le autorità proibivano il “gioco del calzo” minacciando la pena di cento scudi e frustate ai trasgressori.
Nel 1992 il Ce.S.Co.De.C. – Centro Studi sui Comportamenti Devianti e Criminali legato al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna – in collaborazione con l’Assessorato allo Sport del Comune di Bologna e il “Centro Bologna Clubs”, con il patrocinio del quotidiano locale “Il Resto del Carlino” organizzò a Casalecchio di Reno un seminario. In quell’occasione, studiosi (ma nessun ultras), protagonisti e operatori del mondo del calcio si ritrovarono per discutere del fenomeno della violenza negli stadi.
Il seminario partiva dall’ipotesi per cui la violenza nelle curve è caratterizzata da atteggiamenti imprevedibili ad opera di sottoculture dei tifosi ultras che percepiscono il calcio come una battaglia e non come uno spettacolo di intrattenimento. La chiave di lettura per interpretare le azioni di questi tifosi che emergeva nel seminario sembra reggere anche oggi, esaminando il modo in cui i giornali locali, bolognesi e nazionali, hanno raccontato quello che è successo durante la partita Bologna-Napoli del 19 gennaio scorso.
Gli ultras, anche oggi, continuano ad essere descritti come una “massa omogenea”: le loro azioni violente sono sempre riconducibili a una “folla” governata da dinamiche di cieca influenza, generata da processi di suggestione-imitazione di cui tutti i componenti sono destinati a diventare bersagli/vittime. Nonostante negli ultimi anni sociologi come Alessandro Dal Lago e il bolognese Antonio Roversi, ed esperti di sottoculture giovanili come Valerio Marchi, abbiano dimostrato come non ci sia nulla di più interclassista ed eterogeno che una curva calcistica, queste rappresentazioni sono ancora dominanti.
Il 19 gennaio scorso le squadre del Bologna e Napoli si incontrano allo stadio Dall’Ara. Un tifoso napoletano, il direttore dell’Istituzione Musei Bologna, prima della partita ha una brillante idea, ovvero quella di trasmettere allo stadio, prima dell’incontro, la canzone “Caruso” di Lucio Dalla. La brillante idea (mai discussa con gli ultras) viene accolta dal presidente onorario dei rossoblù, Gianni Morandi. Al Dall’Ara, però, la canzone viene sospesa al secondo ritornello (“Te voglio bene assai”) dopo i fischi dei tifosi bolognesi: “Lavali con fuoco, Vesuvio lavali con il fuoco”. Successivamente, compaiono striscioni offensivi verso i tifosi napoletani che causeranno le dimissioni del presidente onorario del Bologna Gianni Morandi, che parlerà di “maleducazione deficiente”.
L’intero Consiglio Comunale, il sindaco Virgilio Merola e l’assessore alla Legalità Nadia Monti, il giorno dopo si scuseranno con i loro colleghi di Napoli “e con tutti i cittadini che non si sentano rappresentati dal fanatismo ultras”. La Procura si muoverà di conseguenza aspettando gli atti della Digos. E’ uno striscione in particolare che il Consiglio Comunale vorrà stigmatizzare, quello che portava la scritta “Sarà un piacere quando il Vesuvio farà il suo dovere”, comparso nella curva della tifoseria di casa.
Le accuse agli ultras sono sempre le stesse: razzismo e violenza. Il giorno dopo l’incontro a “Radio Città del Capo” alcuni tifosi “estremi” vengono invitati a difendersi da queste accuse: negheranno entrambe le accuse. Perché questa negazione dovrebbe essere, non dico giustificata, ma almeno ascoltata?
Il gruppo ti aiuta a crescere quando ti gratifica, ad esempio la prima volta che hai in mano il bandierone, o la prima volta che sali in balaustra e stai di schiena alla partita e devi lanciare i cori. Sono percorsi che tu fai nell’arco degli e ti aiutano a crescere.
Da cinno tu vedi sempre la ringhiera, lì vedevi dall’alto, i tamburi… li studiavi, cavolo che giubbotto ha questo, come cantano, come si incacchiano, era figo. I cori degli anni ’70 e ’80 ti lasciano a bocca aperta. I migliori sono quelli storici. Bisogna tornare alla semplicità dei cori di una volta, con un po’ di sarcasmo. E poi certi cori belli non si fanno più.
Il fatto è che la mancanza dei tamburi e dei megafoni rende tutto più difficile, perché a noi che siamo sulla sinistra il coro arriva che è quasi finito. È un bacino di diecimila persone che deve dire la stessa cosa nello stesso tempo e se non hai il ritmo non è possibile. Adesso sono vietati.
Queste sono parole di tifosi di curva bolognese, i quali hanno iniziato a frequentare la curva del Bologna negli anni Ottanta. Ci riportano, tutte, alla fascinazione di allora giovani ragazzi e ragazze per questa realtà; fascinazione che poi li ha spinti a entrare a far parte di specifici gruppi ultras. Fanno tutte riferimento a ciò che caratterizza lo stadio ancor prima dell’inizio dell’incontro, quando due tifoserie si fronteggiano con slogan e coreografie preparate durante la settimana: canti che non hanno nulla a che fare con il confronto sportivo e la partita.
Fanno riferimento anche ai cori che caratterizzano uno stadio di calcio durante la partita, cori che servono a impedire all’altra parte di farsi sentire dimostrando la superiorità organizzativa del proprio gruppo. Tutto ciò (piaccia o non piaccia) fa parte di un rituale, che è certamente cambiato nel tempo, ma che ha sempre caratterizzato il mondo delle curve a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando possiamo parlare anche nel nostro Paese dell’esistenza di determinate sottoculture giovanili che si ritrovano nello stadio.
In questo senso la cornice della curva costituisce da sempre un territorio e una cultura a sé; i suoi membri devono recitare il ruolo di portatori esclusivi della bandiera e delle tradizioni, quello di interpreti principali del tifo. Anche per questo la curva non ama chi, come il presidente onorario Morandi, siede in tribuna; ovvero il “pubblico generico”, quelli che non si sacrificano per la squadra. Un disprezzo che non ha alcun valore sociale o classista ma esprime il sentimento diffuso che gli “altri”, i mondi delle tribune, siano anaffettivi rispetto alla propria appartenenza territoriale, alla “bolognesità”.
Spesso i media hanno parlato di “politicizzazione” delle nostre curve. Se è certamente vero che i valori, anche quelli rivendicati in maniera oppositiva dagli ultras del Bologna, sono “comunitari”, non lo è il fatto che quest’ultimi siano gruppi caratterizzati da un’identità etnica (da chi è composto un gruppo ultras? Tutto fuorché una massa omogenea, come detto). Se è vero che tali gruppi, spesso, nei loro cori e striscioni, riprendono in modo parodistico e ritualizzato simboli di adesione e di appartenenza “politici”, sarebbe un errore pensare che le curve siano filiazioni dirette di gruppi politici (ciò non nega il fatto che negli ultimi dieci anni l’estrema destra ha più volte tentato di “egemonizzare” le curve italiane).
Tale libertà interpretativa, parodistica e ritualizzata, è evidente proprio prendendo in esame i cori delle nostre curve, anche di quella bolognese, che possono andare da Mozart, passando per “Guantanamera” fino ai canti partigiani dei “Morti di Reggio Emilia”. Si tratta di un bricolage in cui parlare di “destra” e “sinistra” non ha alcun senso (per questi spesso gli ultras negano che dentro le curve si faccia politica).
Simbolico (a parte pochi casi) è anche il conflitto tra le due tifoserie, che trova invece senso solo all’interno di una cultura, “gestuale” (gli striscioni, lo sventolio delle bandiere, le coreografie etc.) e “musicale” (i cori). La maggior parte dei conflitti all’interno dello stadio non sono legati a un’opposizione di interessi e di potere, come nel caso delle lotte classe, oppure legati a differenze culturali, per esempio conflitti politici ed etnici, ma piuttosto rituali, nel senso che acquistano di senso solo all’interno di un’opposizione simbolica strettamente limitata al calcio.
Ovviamente, come nel caso di Bologna-Napoli, ciò non significa che, in curva, elementi di conflitto (forse sarebbe meglio dire “simboli di conflitti”) sociali, politici ed etnici – vedi il caso dello striscione sul Vesuvio – non possono essere rappresentati in curva. Tuttavia, questa intromissione di simboli esterni, di striscioni che rivendicano ideologie razziste non dimostra in nessun modo che lo stadio sia una scena di amplificazione dei conflitti esterni, il luogo dove il razzismo presente nella società trova massima espressione. Ciò che avviene in uno stadio, anche se apparentemente riprende valori e contenuti della vita ordinaria, ha una forma autonoma rispetto al mondo esterno e la dimostrazione di questa cultura uniforme e separata rispetto alla vita quotidiana è proprio l’attività di bricolage delle appartenenze e delle identità politiche che avviene domenicalmente nelle curve.
Quello che è successo il 19 gennaio 2014 allo stadio Dall’Ara dovrebbe essere veramente studiato se vogliamo risolvere un problema (sempre che ci sia un problema). Decidere di rompere il rituale dei cori e degli struscioni imponendo, senza negoziarlo in nessun modo, di trasmettere la canzone “Caruso” è stato recepito come una provocazione dagli abitanti della curva; questo proprio perché quei rituali sono necessari per agire un ruolo ben determinato dentro la cornice dello stadio, che rappresenta uno spazio autonomo e di reinterpretazione del mondo che gli è fuori (ripeto, che ci piaccia o no).
I fischi alla canzone non sono partiti, per quel che si è venuto a sapere (ma chi del resto, a parte Radio Città del Capo, chi vuole far parlare gli ultras?), perché programmati, ma spontaneamente, proprio quando i tifosi si sono accorti di quel che stava succedendo. Forse, se cominciassimo a studiare, avvicinandoci a loro, al punto di vista degli ultras capiremmo molto di ciò che succede anche fuori delle curve perché, negli ultimi anni, spesso queste realtà hanno anticipato i conflitti che poi hanno attraversato le nostre piazze.