di Manuela Battistutta
Corno di Rosazzo. È la mattina del 7 ottobre 1945 ed è domenica quando Enzo Zilio torna a Corno di Rosazzo col fratello dopo nove mesi destinati a condizionare profondamente il corso di una vita. Ha solo 19 anni, ma ne passeranno altri tre a causa degli strascichi di una pleurite prima di potersi ristabilire completamente e “iniziare” a vivere. Il ritorno alla vita, dopo la deportazione, coincide con l’innamoramento per Giuseppina Francovig, che diventa impegno a costruire una famiglia solo dopo aver ottenuto dal medico di fiducia, il dottor D’Osualdo, la garanzia di essere in buona salute per potersi impegnare seriamente.
Enzo e Giuseppina. Oggi, dopo 67 anni, quel legame e quella complicità tra Enzo e Giuseppina sono ancora forti, un affiatamento che si percepisce incontrandoli nella loro casa poco distante dal Santuario di Madonna d’Aiuto a Corno di Rosazzo. Ma quei nove mesi, dal maggio 1944 all’ottobre 1945, sono vivi nella memoria di Enzo, ricchi di volti, incontri, luoghi e lingue diverse, sofferenza, pietà e gratitudine. E c’è in lui quasi un imperativo morale, una necessità di ricordare, non voler dimenticare, col pudore per la sensibilità altrui.
Viaggio lungo un filone di pane. «È il 26 maggio 1944 – racconta – quando i tedeschi, in seguito all’uccisione di alcuni dei loro, costringono come rappresaglia la popolazione di Corno a radunarsi in piazza e, dopo sommaria selezione, caricano me, mio fratello e altri sui camion. Erano le 5 del mattino, in piazza una novantina di famiglie. Ci suddivisero in due gruppi, abili e deboli, rimandarono a casa bambini, donne e uomini anziani, e mio padre, perché aveva una mano mutilata della Prima guerra». Enzo è fortunato, col fratello finisce tra gli abili al lavoro, «ben altra sorte per il gruppo dei deboli, destinati a Dachau». Non sa quale sarà la sua destinazione. Ma intuisce che andrà lontano. La misura del viaggio è un filone di pane intero, «chi lo riceveva doveva percorrere almeno mille chilometri prima di arrivare».
Abili e deboli. Sarà portato con altri dieci falegnami di Corno a Breslau, capitale della Slesia germanica (ora Breslavia, in Polonia), a lavorare nello stabilimento industriale Berthawerk di Berta Krupp, che Enzo ricorda come una struttura d’avanguardia dell’industria bellica per l’organizzazione e per i macchinari usati nella produzione. Dei dieci prigionieri portati a Breslau tutti riusciranno a tornare, ma come documentato da Fabrizia Bosco e Anita Deganutti nel libro “Corno di Rosazzo. La sua storia, la sua gente”, sette compaesani (Abele Ciani, Vitale Manzini, Albino Nascig, Giovanni Butussi, Mario Gasparutti, Dante Zorzini, Gino d’Este) rastrellati nello stesso giorno moriranno nei campi di sterminio di Dachau, Buchenwald e Mathausen.
Lavoratore libero. «Ufficialmente ero un lavoratore libero in un campo di lavoro tedesco col tesserino di riconoscimento. Vivevamo in baracche e ogni giorno percorrevamo sei chilometri a piedi per arrivare alla fabbrica. Eravamo addetti al reparto falegnameria e manutenzione idraulica ma, di fatto, anche lattonieri o uomini delle pulizie».
Amici o nemici. L’abilità manuale (a 11 anni aveva iniziato a lavorare in quella che è oggi la storica azienda di famiglia nel settore della sedia), il veloce apprendimento delle lingue, prima il tedesco e poi il russo, l’etica del lavoro trasmessagli dall’ambiente familiare, ma soprattutto, nonostante la giovane età, una mente schietta e libera dal pregiudizio che arriva all’uomo al di là della fazione di appartenenza, fanno sì che Zilio riesca a costruire relazioni significative «anche con il nemico». Come con il ragioniere Rossman dello stabilimento, che gli salva la vita più volte, eppure poi decide di far quasi sbranare da un cane un ebreo colpevole di aver rubato proprio la scodella di Enzo.
E poi il “maestro” e capo manutentore Krenzel, che mentre i russi stanno per arrivare rivela a Enzo di essersi affezionato a lui e di volergli lasciare la propria eredità. Lo stesso Krenzel solo due mesi prima lo aveva colpito con un bastone violentemente, spezzandogli il pollice di una mano solo perché Enzo si era permesso di accettare un pezzo di pane offertogli dallo stesso Krenzel per ben tre volte. Quel pollice oggi, nel 2014, è ancora storto. Con l’arrivo dei russi, l’invito è di spostarsi verso le zone da loro occupate e così Zilio fa e riesce a farsi benvolere anche dal capitano russo, portandogli la grappa prodotta artigianalmente come aveva imparato a fare dalla famiglia Visintini di Corno.
Verso casa. Ma desiderio e speranza di tornare a casa non lo abbandona, tuttavia per Enzo non ci sono amici o nemici in questa tragica esperienza di sofferenza, non ci sono portatori ideali di verità assolute. Ci sono incontri con uomini e donne, destini incrociati e il desiderio di “fare” comunque, di sperimentarsi sempre in ogni occasione, anche la più dolorosa, di imparare ogni mestiere rimboccandosi le maniche, di non arrendersi alla fame e alla fatica seppure con negli occhi e nel cuore il ricordo delle violenze e dei soprusi dall’una e dall’altra parte.
Dal prelevamento forzato del fratello Marino di 15 anni, che i partigiani “rapiscono” perché hanno bisogno di un dattilografo, alle terribili visioni dei corpi mutilati, tanti; dai prigionieri ebrei che perdono i sensi “lanciati” dai tedeschi sui camion, alle violenze dei russi. La memoria va al di là degli schieramenti e comprende tutti.
Settanta anni fa. Aveva solo 18 anni, ora ne ha 88. Ha avuto quattro figli con Giuseppina, l’amore di una vita. Una bimba scomparsa a soli 24 mesi, quasi il dolore della guerra non fosse stato già abbastanza. Oggi con Giorgio, Paolo e Fulvia e i due nipoti, Giorgia di 29 anni e il piccolo Filippo di 4, Enzo è grato per una vita molte volte salvata e per aver avuto, a sua volta, in modo diretto o indiretto l’occasione di salvarne almeno quattro di vite.
La battuta. Senza aver perso mai il buon umore Enzo ricorda, in conclusione, una battuta al medico che lo visitava appena rientrato a casa dal campo di lavoro “Ero ospite di zio Dolfo. E se no tu sas cuj che al è, l’è mior”.
Questo articolo è stato pubblicato sul Messaggero Veneto il 26 gennaio 2013