di Aldo Tortorella
C’è stato un tempo in cui la parola “rivoluzione” faceva paura a coloro che venivano definiti i benpensanti. Ma non solo a loro. Nel linguaggio comune e in diversi dialetti (per esempio, il milanese) almeno fino alla metà del secolo passato – e anche oltre – “fare un quarantotto” voleva dire buttare tutto all’aria, creare un gran disordine, rovesciare le regole: e quel 48 entrato e rimasto nel lessico popolare per cent’anni era la rivoluzione del 1848, quella che aveva sconvolto gran parte d’Europa e per cui due trentenni d’ingegno, pieni di speranze, avevano scritto un opuscoletto, per incarico della Lega dei comunisti, senza immaginare che quel loro Manifesto per l’immediato avrebbe prodotto scarsi risultati ma sarebbe stato un successo editoriale secondo solo alla Bibbia.
Rivoluzione faceva paura, comunque, perché per tutto l’Ottocento volle dire, per i più, il fantasma dei giacobini, e nel Novecento la minaccia dei bolscevichi. Anche i fascisti proclamarono una rivoluzione, ma si capì che si trattava del contrario. Proprio perciò, nel secondo dopoguerra qui in Italia, il rinato Partito comunista educava il suo popolo e soprattutto i suoi giovani ad amare la democrazia e a non giocare vacuamente con la parola rivoluzione, fino a bandirla dal proprio lessico politico.
Dalla fine del secolo scorso a oggi, la parola è ritornata di granmoda con significati opposti a quelli antichi. È come per la parola riforma. Originariamente, nel linguaggio del movimento operaio e socialista, significava cambiare qualcosa per estendere la sfera della socialità. Oggi significa estendere il privatismo economico. Lo stesso accade con la rivoluzione. Sfidando la contraddizione in termini si è parlato di rivoluzione conservatrice.
Si è proclamata la rivoluzione neoliberista contro qualsiasi forma di gestione pubblica. Tornano ad aver seguito i teorici e i pratici di rivoluzioni razziste. I nostrani proprietari del Movimento 5 stelle si dichiarano protagonisti di una rivoluzione anti tutto, ma a favore del reato di immigrazione. C’è chi vuole la rivoluzione rottamatrice, ma solo nel proprio recinto.
Per fortuna è arrivato un Papa che, almeno per la sua Chiesa, parla, con parole antiche, di un’altra rivoluzione: per stare dalla parte dei diseredati, contro i mercanti di armi fautori di guerre, contro la deificazione della ricchezza e del danaro. Parla, s’intende, di un altro modo di vivere la fede cristiana rispetto a chi sa solo ripetere giaculatorie, ma risveglia il mondo.
È una bella lezione per i molti che, caduti nel sonno della ragione avendo perso ogni memoria della cultura critica che forse avevano appreso da giovani, s’erano rassegnati a pensare e a vivere come se l’assetto sociale attuale fosse oramai intoccabile, o, al massimo, suscettibile di qualche ritocchino. Non era vero e non è vero. Anche la inflazione della parola rivoluzione dimostra che le cose non stanno così. Per quanto contraddittoriamente pensata e pronunciata l’uso e l’abuso di quella parola è sempre un indizio di una situazione insostenibile particolarmente in Italia, ma non solo in Italia.
Non si sentirebbe invocare una qualsiasi rivoluzione se le cose andassero per il meglio. La (contro)rivoluzione conservatrice iniziò perché parve che la crisi economica degli anni settanta potesse essere risolta attaccando lo Stato sociale e le conquiste sindacali. In effetti la politica della redistribuzione della ricchezza prodotta non poteva andare avanti come prima quando la ricchezza diminuiva. O si andava a una riforma della qualità del modello economico e sociale o si gravava la mano sul lavoro: e fu quest’ultima la strada seguita.
La Thatcher affermò la sua linea e il suo potere sconfiggendo duramente i minatori e il loro sindacato e Reagan aprì la sua presidenza stroncando lo sciopero dei controllori di volo con il licenziamento in massa (erano undicimila) di tutti quanti. Quello che sta accadendo in questi nostri tempi ha una similitudine con quel passato. Con la differenza che oggi ciò che è entrato in crisi sulla scala globale è proprio la soluzione allora adottata.
Gli Stati Uniti hanno appena superato lo scoglio di un ulteriore aumento del debito pubblico ma per quanta carta moneta venga immessa sul mercato è difficile parlare di una vera soluzione della crisi economica più lunga dal 1929 in poi: la povertà è in aumento e diventa sempre maggiore l’abisso tra la parte più ricca e quellameno abbiente o povera.Ma ciò accade anche nella trionfante Germania, dove il governo ha censurato il rapporto sulla crescita della povertà nelle sue parti più crude come quella in cui si informava che se i salari alti sono cresciuti quelli più bassi sono crollati (e contemporaneamente il 10% più ricco della popolazione detiene il 53% della ricchezza nazionale mentre il 50% più povero ne ha solo l’1%).
Qui da noi i dati sulla disoccupazione, sulla diminuzione delle retribuzioni, sui tagli allo Stato sociale, sull’aumento della povertà assoluta e relativa sono troppo noti per essere ripetuti e non destano più stupore. Ciò che stupisce non è solo la fragilità, per usare un eufemismo, della risposta di coloro che dovrebbero essere i più preoccupati, ma la loro inconsapevolezza dello stato reale delle cose. Sembra che i governanti e le sinistre non avvertano o non vogliano avvertire di essere giunti al limite di una situazione insostenibile. Le condizioni di disperazione materiale
sempre più estesa si sommano a uno stato d’animo di moltissimi che disperati non sono ma vivono le normali difficoltà dell’esistenza con frustrazione e con ira, con crescente irritazione e disprezzo verso tutti i politici e tutte le istituzioni democratiche.
Uno stato d’animo alimentato non solo da chi ha scelto, come i 5 stelle, una opposizione distruttiva, ma dalla destra governativa e non governativa e da un senso comune presente anche nel recinto della sinistra. Ma alimentato soprattutto dalla incapacità di cambiare comportamenti e cultura di chi sta nelle stanze del potere.
La proclamata linea della responsabilità nazionale con cui si è giustificato il governo detto di larghe intese si trasforma in una sorta di rassegnazione. Si pensa che accondiscendendo alle posizioni della destra sino a sfiorare le peggiori compromissioni in materia di legalità e di giustizia la tempesta si plachi. E perciò si finge di non vedere che mentre il governo agisce sotto il ricatto perenne della destra in materia economica, contemporaneamente gli organi d’opinione in mano alla destra (cioè la maggior parte degli strumenti di comunicazione popolare) rovesciano sulla sinistra governativa e non governativa tutte le responsabilità della inaccettabile situazione dei più disagiati, del ceto medio che si impoverisce, delle aziende che falliscono, dell’inettitudine del potere pubblico.
La speranza della sinistra moderata è che poco per volta la situazione economica possa migliorare e così chi nel governo ha avuto la maggiore funzione (la Presidenza del consiglio) ne avrà un beneficio. È una speranza forse valida per tempi normali, ma infondata in una situazione come quella attuale. Ci si consola perché i sondaggi più amichevoli danno un punto o un mezzo punto in più al centro-sinistra: ma, dato che si voglia prendere per reali queste minuzie di vantaggio, bisogna sapere che non valgono nulla in una prospettiva di sempre maggiore astensione. Sembra si sia dimenticato che un quarto dei votanti ha scelto una posizione che in altri tempi si sarebbe chiamata antisistema.
Con l’aggravante che coloro che venivano ieri definiti antisistema, e cioè il Pci, si battevano per attuare la Costituzione democratica e i principi della rappresentanza mentre i capi antisistema di oggi, invece, chiamano solo a distruggere il poco che rimane in piedi. La domanda vera, quindi, riguarda il perché tanti li abbiano seguiti e li seguano e perché tantissimi altri si disgustano della politica stessa. Non si addomestica la destra blandendola, ma riconquistando il proprio popolo.
È innanzitutto una analisi seria della realtà che manca. Ciò che viene avanzando nel mondo è un cambiamento immane. Non è immaginabile che tutto rimanga com’era con le vecchie abitudini e con i vecchi privilegi dinnanzi all’emergere del desiderio di miliardi di uomini di vivere e non di vegetare o di morire di fame. Che la miseria estrema avrebbe tracimato a qualsiasi prezzo – compresa l’orrenda carneficina cui assistiamo davanti alle nostre coste – era stato previsto da molti, compresa questa rivista. Ma ora siamo a un nuovo passaggio.
Bisogna intendere bene che la crisi della strada imboccata ormai da decenni – e cioè la crisi del neoliberismo – può sfociare in qualcosa di peggio. I segnali si moltiplicano. La rivoluzione conservatrice che abbiamo vissuto pare ormai troppo blanda a molti nelle classi dominanti, ma anche tra vasti strati popolari. La estrema destra francese, che esalta il filonazista Petain, è nei sondaggi il primo partito e avvia il suo incontro con la destra che fu moderata.
In Norvegia si è installato un governo della destra e dell’ultra destra razzista (quella in cui militò il nazista e stragista Breivik). Si è salutato come positivo il successo della Merkel, perché ha sconfitto i neonazisti e gli antieuropeisti, ma non si può dimenticare che ha vinto con una politica di egoismo nazionale che semina vento. Ho richiamato altra volta il caso ungherese dove sono al governo gli ipernazionalisti che hanno costituzionalizzato la religione di Stato, il bavaglio alla stampa, l’ostracismo all’opposizione.
Ora ci si consola perché il vicecapo del partito nazista locale (16% dei voti) avendo scoperto di essere ebreo ha sconfessato se stesso, la sua predicazione razzista e il suo partito: una notizia educativa, ma al potere rimangono i reazionari di prima e quel partito non molla. Gli esempi potrebbero continuare. Nella crisi, l’aria anti-immigrati, anti-rom, antisemita soffia forte in tutta Europa. La storia non si ripete meccanicamente.
La volontà di colpire ancora più duramente la condizione di chi lavora e le stesse conquiste democratiche non si presenta sempre e soltanto con la stessa divisa di ieri o dell’altro ieri, anzi indossa spesso panni nuovi e aggiornati. Più sottili sono le tecniche di persuasione, più esperti i linguaggi, più seduttiva l’opera di spegnimento del senso critico. Una nuova generazione della sinistra si affaccia. Speriamo che non si trastullino nuovamente con verbalismi rivoluzionari e in dispute personali per nascondere il vuoto – come accadde a tanti dei loro fratelli maggiori.
È molto difficile, ma non impossibile, oggi, capire e far capire che i responsabili dei guai in cui siamo immersi non sono i disperati del mondo, ma chi comanda nel mondo e ha determinato tanta disperazione. Forse è possibile riscoprire la morale fatta innanzitutto di passione volontaria dei primi che aprirono la strada alle idee della giustizia sociale. Il Papa ha spezzato una buona parte delle ipocrisie del suo palazzo dicendo un semplice “buona sera”. Speriamo che la nuova generazione della sinistra sappia dire il suo buon giorno.
Questo articolo è l’editoriale dell’ultimo numero di “Critica Marxista”