di Angela Pascucci
Strana coppia, G2, partnership strategica del XXI secolo, nemici/amici. Le definizioni del rapporto senza precedenti fra Usa e Cina non sono mai state facili e si sono sempre consumate rapidamente, a riprova dell’evoluzione accelerata delle dinamiche che ormai coinvolgono le due potenze su tutto lo scacchiere planetario. La nuova leadership cinese guidata da Xi Jinping chiede oggi agli Stati uniti di prendere atto che la relazione, resa inscindibile dall’economia di mutua dipendenza, deve essere portata a un livello più alto, definito da Pechino “un nuovo tipo di rapporto fra superpotenze”. Washington non ha ancora deciso se e come gli conviene aprire questa nuova fase, che comporta un riconoscimento di portata storica, ma deve prendere atto che non può sottrarsi.
Lo ha dimostrato l’atteggiamento del vice presidente Biden, ritrovatosi il 4 dicembre scorso a Pechino nel frangente drammatico dello scontro sino-giapponese sulla nuova zona di difesa aerea stabilita dalla Repubblica popolare (Rpc) che ingloba un gruppo di isole contese, le Senkaku-Diaoyu, decisione che ha visto gli Usa schierare i propri B52 al fianco dell’alleato giapponese, come da trattati. Neppure una parola è stata proferita sulla questione nella conferenza stampa congiunta finale, seguita ai colloqui durati ben cinque ore fra Biden e Xi Jinping. Ma le dichiarazioni rilasciate avevano l’inquietante sapore delle questioni irrisolte, anche se c’è chi ha voluto vedere in questo silenzio una sorta di “maturità”.
Il capo dei capi cinese, dopo aver parlato di un anno in cui i rapporti avevano avuto un buon avvio e “mantenuto un momento di sviluppo positivo”, ha dichiarato che la situazione nella regione e nel mondo sta cambiando, con sfide sempre più pronunciate e punti caldi nell’area che continuano ad accendersi inaspettatamente. “Il mondo nel suo insieme non è tranquillo” ha detto Xi, e Usa e Cina devono assumersi responsabilità importanti per mantenere la pace. “Rafforzare il dialogo e la cooperazione è la sola giusta scelta che abbiamo di fronte”. Biden ha ribattuto affermando che “le relazioni richiedono un impegno sostenuto, di alto livello, e per questo io sono qui”.
Presto si saprà cosa ci aspetta. Ma vale qui la pena di inoltrarsi su un altro aspetto delle relazioni Usa-Cina che sporadicamente affiora e che però spiega molto bene la complessità raggiunta dai rapporti fra la superpotenza in declino e quella in ascesa.
Nel corso della sua visita, Biden, silente sulla geopolitica, è stato piuttosto esplicito nella protesta contro il trattamento che le autorità cinesi stanno riservando ai giornalisti americani accreditati in Rpc. Alle usuali traversie incontrate nel lavoro di indagine nel paese, il più delle volte ostacolato e minacciato quando i temi delle inchieste sono sgraditi al governo, si è aggiunta ora la minaccia di non rinnovare i visti di lavoro a due dozzine di giornalisti del New York Times (NYT) e dell’agenzia internazionale Bloomberg. Già in passato si era assistito a sanzioni isolate, mai si era arrivati a una punizione di massa.
Il peccato dei due giganti dell’informazione è di avere, nel 2012, esposto in modo approfondito e articolato i redditizi affari delle famiglie di due pezzi da 90 cinesi, l’attuale presidente Xi Jinping, di cui si erano occupati i giornalisti di Bloomberg con un articolo del 29 giugno 2012 (vai al testo) e l’allora premier Wen Jiabao, oggetto di una lunghissima, dettagliata inchiesta, sostenuta da una potente documentazione, pubblicata il 25 ottobre dal New York Times (vai al testo) e valsa al suo autore, David Barboza, il premio Pulitzer.
Il governo cinese, che deve affrontare una fase di nuove riforme e forti cambiamenti, sta stringendo le fila, e con esse controlli, sorveglianza, censure. Il restringimento delle maglie riguarda tutti i corrispondenti, che in Cina sono sempre sotto stretta osservazione. Ma il trattamento riservato ai due big mediatici mondiali attiene a una sfera ancora più complessa. Chi scrive era a Pechino due settimane prima che il NYT pubblicasse la sua inchiesta e in alcuni ambienti bene informati era
già noto cosa il quotidiano americano si apprestava a fare. A un mese dal XVIII congresso, che avrebbe sancito il cambio di leadership, e dopo un anno di terremoto interno al Pcc che aveva visto cadere la testa di Bo Xilai, potente capo del Partito a Chongqing, l’uscita dell’inchiesta era un evento sconvolgente che nella capitale veniva letto da alcuni come lo scatenamento di una lotta interna a colpi di dossier che planavano sulle scrivanie dei giornalisti occidentali, o meglio americani.
Questa circostanza può spiegare l’atteggiamento durissimo del governo cinese che oggi, oltre a voler punire i media più coinvolti, sta probabilmente cercando di disinnescare una pericolosa deriva interna, pronta a ripartire in un altro momento di scontro politico, e diventare incontrollabile, con effetti esiziali per la tenuta del Partito.
D’altra parte le inchieste più clamorose, che svelano segreti ben tenuti, spesso non possono prescindere da documentazioni alle quali i normali metodi di inchiesta difficilmente potrebbero accedere. Inoltre bisogna sapere bene dove mettere le mani. Nessun giornalista si tirerebbe indietro davanti a una simile opportunità, costi quel che costi. Al New York Times lo scoop sulla famiglia Wen è costato carissimo, circa 3 milioni di dollari di mancati introiti a causa del blocco del suo sito in cinese, lanciato 4 mesi prima che uscisse l’articolo incriminato. Mossa punitiva delle autorità cinesi che hanno continuato a fermare tutte le iniziative editoriali del gruppo Times in Cina e che oggi tengono in un limbo i suoi giornalisti, facendo temere l’ulteriore danno economico e di immagine che provocherebbe il non avere corrispondenti in Cina, sede cruciale per ogni giornale che voglia stare sul mercato globale dell’informazione. Senza contare quel che significa essere esclusi da un mercato di vendita dei dati e della pubblicità come quello cinese, destinato a crescere enormemente, se le riforme di liberalizzazione annunciate dal governo saranno realizzate.
In questo clima esasperato, il quotidiano Usa ha deciso di vendere cara la pelle e si è lanciato in una battaglia furibonda in nome della libertà di stampa che non può essere soffocata dai ricatti economici, ai quali invece altre compagnie si stanno piegando. Come la stessa Bloomberg, che ultimamente avrebbe bloccato l’uscita di due inchieste, una sui legami finanziari segreti tra uno degli uomini più ricchi della Rpc e le famiglie di alcuni leader cinesi e un’ altra sui figli degli alti funzionari cinesi assunti dalle banche straniere. Se fossero stati pubblicati, avevano infine ammesso i manager in colloqui riservati coi giornalisti, il gruppo sarebbe stato messo fuori dal paese. I reporter del gruppo colpiti dall’auto censura si sono naturalmente rivolti al NYT, al quale hanno consegnato le documentazioni interne di quanto avvenuto, provocando le ire della casa madre secondo la quale gli articoli sono stati solo sospesi, non soppressi. (“Bloomberg News Is Said to Curb Articles That Might Anger China”, vai al testo). Ma l’aria che tira non favorisce ripensamenti.
Così il New York Times, facendo di necessità virtù, ha imbracciato le proprie armi letali e cominciato a prendere di mira non solo i leader cinesi ma anche gli ambienti americani conniventi, portando così a galla il lato oscuro del rapporto Usa-Cina.
Sotto il suo occhio implacabile è da qualche tempo la JP Morgan, potenza finanziaria di Wall Street, incappata nelle maglie di un’inchiesta federale intenzionata a chiarire le circostanze in cui è avvenuto il reclutamento di alcuni figli della potente nomenclatura cinese, che avrebbe in cambio garantito lucrosi affari con le imprese di stato da essa governate. La Stock Exchange Commission (Sec) e gli inquirenti si sono messi in moto sulla base del Foreign Corrupt Practices Act del 1977 secondo il quale è illegale che le compagnie Usa scambino “qualcosa di valore” con funzionari stranieri di compagnie pubbliche per ottenere un “vantaggio improprio” nella conclusione di un affare. La JP non è ancora accusata di alcun illecito, scrive il NYT, ma potrebbe costituire una base di partenza per espandere le indagini della Sec ad altri 5 grandi gruppi bancari: Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs e Morgan Stanley.
Non è che l’inizio. Ma finora pare accertato che il “Programma figli e figlie” della JP Morgan ha portato molti vantaggi al gruppo finanziario. La figlia del premier Wen Jiabao (nascosta dallo pseudonimo Lily Chang) avrebbe intascato 1,8 milioni di dollari in tre anni a partire dal 2006 per fornire consulenze ben mirate ed entrature. L’arruolamento più proficuo, e più indagato, sarebbe quello di Tang Xiaoning, figlio del presidente del China Everbright Group, grande conglomerato finanziario controllato dallo stato. Secondo i tabulati elettronici consegnati agli inquirenti, all’assunzione del giovane hanno fatto seguito nell’arco di 3 anni una serie di ingaggi per consulenze finanziarie della JPMorgan riguardanti affari da centinaia di milioni di dollari.
(Bank tabulated business linked to China hiring. Vai al testo)
Dai documenti sarebbero emersi altri 30 nomi, che includono funzionari del Pcc e dipendenti legati a compagnie statali cinesi.
D’altra parte sono 20 anni che le banche di Wall Street e le multinazionali che operano in Cina cercano di ingaggiare “principini” e funzionari ben collocati come consulenti o partner, nella speranza di avere le chiavi giuste per aprire le porte più promettenti e ottenere le informazioni decisive. Relazioni intrattenute con discrezione ma non segrete. Il figlio dell’ex presidente Jiang Zemin ha lavorato per Goldman Sachs, la già menzionata figlia di Wen Jiabao si è data da fare anche con Credit Suisse e nel 2006 persino un cognato di Wu Bangguo, allora uno dei membri più conservatori del Politburo, ha aiutato Merrill Lynch a ottenere un contratto per organizzare l’ingresso in Borsa del gigante bancario ICBC, un affare da 22 miliardi di dollari. C’era persino una competizione aperta per assicurarsi i familiari migliori. Chi non ne aveva, e ancora oggi chi non ne ha, trova difficoltà a entrare nel giro che conta. (Vai al testo).
Nessun crimine, forse, solo uno scandaloso e già visto (non solo in Cina) nepotismo sul quale da qualche tempo la Sec e la giustizia federale americana hanno aguzzato lo sguardo. Un altro segnale di quanto sia diventato importante per gli Usa percepire la forza reale che la Rpc sta assumendo, anche nei gangli vitali della sua economia. Innegabilmente inquietante è invece la singolare alleanza di forze sulle due sponde del Pacifico, che i cinesi avrebbero il diritto di conoscere in tutti i particolari.
Questo articolo è stato pubblicato su Global Project il 12 dicembre 2013