di Loris Campetti
Siccome gli imprenditori vanno trattati sempre con rispetto, a differenza dei lavoratori e della loro salute, ora si usa dire che il killer di Ivrea è l’amianto, e non invece chi lo faceva manipolare a operai e tecnici, pur conoscendo la gravissima pericolosità della sostanza. Cognome amianto, nome proprio tremolite, familiarmente chiamato talco perché come tale veniva utilizzato a mani nude dai dipendenti Olivetti per facilitare il montaggio di componenti in gomma.
La tremolite è un composto di fibre di amianto polverizzate che si appiccicavano a tutto l’apparato respiratorio, ma anche ai camici. Quando i dipendenti dell’azienda di Ivrea smontavano dal turno di lavoro riportavano a casa quei grembiuli letteralmente ricoperti da uno strato di veleno. Chi ha seguito la vicenda drammatica dell’Eternit con il suo portato di morte per migliaia di lavoratori, dei loro familiari e di chi viveva nei dintorni dello stabilimento di Casale Monferrato, capisce di cosa si stia parlando. Forse, almeno questa è la speranza, la differenza sta soltanto nei numeri, che alla Olivetti dovrebbero essere meno catastrofici.
Ma se i casi che hanno consentito alla procura di Ivrea di avviare una nuova inchiesta sono una ventina – la maggior parte composta da lavoratori già deceduti, gli altri affetti dal classico mesotelioma pleurico che non perdona – nell’arco di poco tempo le indagini, sia quelle giudiziarie che quelle avviate dalla Fiom che ha aperto uno specifico sportello, stanno portando alla luce molti più casi di dipendenti Olivetti ammalati o deceduti, sia a Ivrea che, probabilmente, negli stabilimenti meridionali dell’azienda. Non è escluso che il conteggio dia una cifra vicino a 100, ma è azzardato fare numeri, dato che le conseguenze dell’asbesto si possono manifestare anche molti anni più tardi rispetto al periodo in cui è avvenuta l’esposizione e gli esperti prevedono che il picco della malattia si avrà nel 2015.
Oltre che nella tremolite, l’amianto è stato rilevato anche nei capannoni: sui tetti, nelle tubature, nelle caldaie, fenomeno ahinoi diffuso in tantissimi impianti industriali e certo non soltanto alla Olivetti. Dunque, il problema specifico qui si chiama tremolite. L’uso di questo “talco” è stato consentito dalle direzioni aziendali fino all’81, decisamente più tardi di quando è diventata nota la pericolosità dell’amianto. E persino più tardi di quando un’indagine specifica, commissionata dalla Olivetti in seguito alle numerose denunce di operai e rappresentanti sindacali sulla nocività delle lavorazioni, aveva confermato la natura cancerogena della tremolite.
Di conseguenza, diverse generazioni di responsabili vengono oggi indagate, e tra i 24 presunti colpevoli “sotto osservazione” per omicidio colposo ci sono Carlo De Benedetti (presidente dal 1978 al 1996) e il fratello Franco, ma anche l’ex ministro Corrado Passera. Già tre anni fa la Procura di Ivrea aveva aperto due inchieste sulla morte per mesotelioma di due dipendenti, Franca Lombardo e Lucia Delaurenti, che avevano portato alla condanna in due gradi di giudizio dell’amministratore delegato Ottorino Beltrami. Ma il processo non si è concluso, perché prima che la Cassazione potesse esprimersi Beltrami è morto e dunque è venuto a mancare il soggetto nei confronti dei quali si sarebbe dovuta rivolgere la sentenza. Ora la nuova inchiesta della magistratura eporediese guidata dal procuratore capo Giuseppe Ferrando potrà avvalersi anche della documentazione raccolta nelle indagini precedenti. Si stima che le morti per mesotelioma alla Olivetti siano state provocate dall’esposizione all’amianto a partire dagli anni Sessanta.
Gli stabilimenti più interessati sono quelli di San Bernardo e la Ico di Ivrea, dove la concentrazione di tremolite superava le 500 unità per milligrammo, 500 volte più del limite tollerato, secondo le analisi compiute al Politecnico di Torino nel lontano 1981. Successivamente, nell’89, si ha la conferma della minacciosa presenza di amianto nelle officine e nel capannone di San Bernardo, ma il problema venne affrontato non con la sua asportazione bensì con una semplice mano di adesivo, a testimonianza del fatto che la sottovalutazione del rischio per la salute è andata avanti a lungo, nel pieno della gestione debenedettiana della Olivetti. Non è escluso che in futuro possano finire sotto osservazione anche le fabbriche di Scarmagno, sempre nel territorio eporediese, di Crema e dell’area partenopea, in Campania.
Lo sportello aperto dalla Fiom di Ivrea sta raccogliendo importanti testimonianze tra gli ex lavoratori della Olivetti e i loro familiari; i metalmeccanici della Cgil sono impegnati in questa ricerca già da anni, da quando le prime notizie sulle conseguenze dell’uso di tremolite cominciarono a circolare in fabbrica e in città, fornendo le prime conferme alle preoccupazioni della popolazione di San Bernardo.
Percorrendo l’autostrada che collega Torino con Ivrea e la Valle d’Aosta, sulle paline chilometriche si leggeva il marchio (negli anni Settanta non si usava la parola inglese brand) Olivetti. Ma se viaggiavi in senso contrario, sulle paline vedevi troneggiare il marchio Fiat. Erano due modelli capitalistici a confronto, molto diversi tra di loro: per prodotto – macchine per scrivere contro automobili – e per cultura industriale.
Da un lato l’autoritarismo monarchico degli Agnelli in cui non contavano le capacità e l’ingegno ma soltanto l’obbedienza, dall’altro il coinvolgimento di tutti i dipendenti in un progetto condiviso; da un lato l’invasione del territorio usato e abusato solo ai fini del profitto, dall’altro la costruzione di una comunità territoriale con il coinvolgimento della popolazione nella costruzione di una “concreta utopia”; da un lato l’alienazione e la parcellizzazione della catena di montaggio con cadenze spaventose, dall’altro la sperimentazione delle giostre, sul modello delle isole produttive in funzione negli stabilimenti svedesi della Volvo, con tanto di rotazione delle mansioni. Se Agnelli si circondava di militari ed ex militari per garantire il controllo ossessivo dei lavoratori, Olivetti arruolava filosofi, scrittori, artisti.
L’utopia di Ivrea, così concreta da aver gettato le basi dell’informatica più avanzata, con la fine degli Olivetti si spense mentre le scoperte rivoluzionarie si imbarcarono verso l’altra sponda dell’Atlantico. L’arrivo dell’ingegner De Benedetti alla fine degli anni Settanta rispedì filosofi, scrittori, artisti e architetti nei loro recinti, decretò la chiusura delle Edizioni Comunità, inglobate nell’impero editoriale di De Benedetti e, nell’arco di non molto tempo, portò allo smantellamento della ricerca e della produzione. Tutto progressivamente diventò finanza. Oggi dell’impero industriale Olivetti non esiste più nulla, salvo piccole unità produttive sotto altri padroni a Scarmagno, persino un’azienda che montava personal computer per i cinesi ha chiuso i battenti.
Proprio nel momento in cui, dopo decenni di silenzio, l’epopea olivettiana diventa mito, acriticamente santificata sol perché conclusa e cancellata dalla memoria e dall’esperienza industriale italiana (vedi lo sceneggiato televisivo andato in onda a ottobre con Zingaretti – alias Montalbano – nelle vesti di Adriano Olivetti), è esploso lo scandalo dell’amianto grazie (grazie, non per colpa) all’inchiesta della Procura della Repubblica di Ivrea. Le reazioni alla scoperta della strage provocata dall’uso della tremolite d’amianto e la conferma, come sempre troppo tardi, del rapporto causale tra la manipoliazione delle fibre d’asbesto e la diffusione del mesotelioma pleurico tra gli ex lavoratori Olivetti, riporta alla luce il conflitto che sembrava risolto tra i due modelli industriali piemontesi. I media tendono a “trascurare” la vicenda, con un’unica eccezione rappresentata dalla Stampa: sul giornale della Fiat e degli Agnelli impazza l’inchiesta, capillare, professionalmente impeccabile e allo stesso tempo “militante”.
Come a dire: vedete, il vostro modello era anch’esso marcio, altro che volto umano del capitalismo. Invece Repubblica, di proprietà di De Benedetti, tace, salvo fornire un minimo obbligatorio di informazione fatta quasi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’indagato Carlo De Benedetti, diventato icona del centrosinistra grazie alle sue battaglie alla Mondadori contro Berlusconi. Un centrosinistra che ha rapidamente dimenticato la finanza spregiudicata, gli assalti all’Ambrosiano di Calvi o alla Sme dell’Iri prodiana, Tangentopoli (che lo portò in galera, sia pure per un giorno), le alleanze con Glodman Sachs, per non parlare della distruzione del patrimonio culturale olivettiano (alla Fiat l’ingegnere fu amministratore delegato per una brevissima stagione, fatto fuori dagli Agnelli per il suo tentativo di scalata alla proprietà con una cordata di finanzieri svizzeri e perché, nel ’78, pretendeva di fare quel che Romiti fece due anni dopo: il massacro operaio. Carlo De Benedetti ha preso, indovinate perché, la cittadinanza svizzera. Suo fratello Franco, anch’egli inquisito dalla magistratura per l’amianto, è stato senatore progressista.
Poi, tra i detrattori dell’inchiesta giudiziaria, ci sono quelli che se la prendono con chi “infanga” la memoria di Olivetti scoprendo gli altarini, in testa il sindaco Pd di Ivrea. Ma per fortuna c’è anche chi, come la Fiom, ricorda a tutti che al primo posto viene la salute dei lavoratori che non può essere sacrificata al profitto, ma neppure alla memoria di una storia industriale per molti aspetti straordinaria, unica in Italia.
Questo articolo è pubblicato dal giornale svizzero Area, quindicinale di critica sociale e del lavoro