di Giuseppe Scandurra
Un lunedì di due settimane fa, approfittando della presenza dei nonni, io e la mia compagna siamo usciti per andare insieme (finalmente) al cinema. Per l’occasione, Manuela, la mia compagna, mi ha imposto una sola condizione (da quando è mamma imporre condizioni è il suo modo di comunicare un evento felice): “Vado al cinema pochissime volte, quindi scegliamo un film che possa ricordarmi con piacere fino al prossimo lieto evento”. La scelta andò in direzione della copia restaurata in 3d dalla Cineteca di Bologna de “Il Gattopardo” (scelta che andava oltre Visconti: la piazza dove è sita la Cineteca ricorda a livello urbanistico quando il capoluogo emiliano giocava ad essere il contesto più berlinese in mezzo a un Paese ancora proibizionista e papalino; la sola differenza con l’oggi è che Bologna è proibizionista e papalina come tutte le altre città del Paese).
Ritardando l’uscita nella volontà di salutare i due bambini al meglio possibile (un tripudio di baci e abbracci come nemmeno fossimo andati a fare una passeggiata nel centro di Aleppo) siamo stati costretti a cambiare programma. In macchina ci colleghiamo (come nelle peggiori serie d’azione nordamericane) a “Mymovies” per vedere quali altri film sono in programmazione nella prima serata (1 e 1/2 visto l’orario). Su venti sale diciotto proiettano Checco Zalone, ovvero “Sole a catinelle”. Ci guardiamo, oramai impossibilitati a fare marcia indietro poiché sospinti da un principio snobistico e ideologico (due comunisti in libera uscita non possono perdere l’attimo).
Scelto il cinema più vicino alla nostra abitazione, o almeno non troppo lontano dalla nostra casa nella banlieue Bolognina (proprio laddove morì il partito comunista italiano), ci rilassiamo (secondo il navigatore, anche tenendo la media di venticinque chilometri orari, saremmo arrivati con ben venti minuti in anticipo in una di quelle catene a più sale con la cornice dello schermo troppo grande per permettere allo spettatore-cliente di provare empatia rispetto alle vite degli attori protagonisti). Parcheggiamo, ci avviciniamo al gabbiotto-cella dove spesso un signore annoiato stampa biglietti quasi in formato a4, ma non c’è posto.
Diciassette sale piene in un lunedì piovoso e grigio in una piccola città di medie dimensioni con aspirazioni metropolitane storicamente mai soddisfatte. L’unica disponibile è in pieno centro, in un cinema dall’estetica “tarda romana”: una sala con centinaia di posti in discesa con il pavimento rynair e i bagni grandi dove possono nascondersi gli accaniti fumatori.
Tralascio il titolo. In un volgare esercizio di critica depoliticizzante non mi soffermerò nemmeno sulla fotografia, il montaggio, le luci, il suono, ciò che chiamano l’elemento recitativo. Ancora più insensibilmente non parlerò della sceneggiatura (anche se i diecimila e più studenti ed ex studenti pugliesi che abitano a Bologna, e che giustificano in parte il successo di tale film in un contesto di migrazione come il Nord Italia, non facevano che parlare degli sketch di “Toti e Tata” all’uscita dell’opera). Qualunquisticamente (per stare dentro il cinema di un altro e diversissimo autore “comico” italiano) non dirò nulla dell’occupazione militare di “Sole a catinelle” (un sala a “Sacro Gra”, due sale, e sempre in Cineteca, per la “Vita di Adele”, forse tre, con il cinema parrocchiale, per “La prima neve”).
In fondo uno snob comunista (la mia compagna durante il film si è spesso distratta pensando ai nostri due bambini vicini alla finestra con il rischio di cadere; perché dà per scontato che la tendenza più forte nell’età infantile è quella del suicidio?, mi chiedo) che abita in una città di “ex” (per stare dentro al cinema di un autore francese meno “comico”) non può che rifugiarsi come massima aspirazione all’esercizio di un pensiero autonomo. Dunque, “Ti è piaciuto?”, mi ha chiesto Manuela?
Mi è piaciuto. Sì, le rispondo. Eppure (in macchina ero contento perché immaginavo quando saremmo tornati a casa per fare l’amore silenziosamente in modo da non farci sentire dai nonni e i loro nipoti aspiranti suicidi), qualcosa mi aveva profondamente (un ossimoro visto in modo in cui i film viene presentato nelle critiche dei quotidiani generalisti) depresso. Non avremmo fatto l’amore. Forse con il “Gattopardo” sì, ho pensato quando siamo risaliti in macchina.
Il film di Zalone è un prodotto deprimente. Lo puoi guardare (come antropologo ho dovuto capire sul “campo” cosa significa decentrare lo sguardo) da tante angolazioni, ma rimane comunque deprimente. La sua bellezza (per me indiscutibile) è tutta racchiusa nella volontà (chissà quanto cosciente in Luca Medici) di imprigionare, per l’appunto, lo spettatore in situazioni a perdere.
Finito il tempo dei Virzì, quello sicuramente più artisticamente problematico della commedia all’italiana, finita la sociologia d’accatto a gauche e forse anche la depoliticizzazione estetizzante (ed esotizzante) del nuovo documentarismo allo Sacro Gra, Luca Medici ci dice che ora c’è solo eterno presente. Altro che idiota dostoeskijano: altro che la maschera che getta luce sulle nostre ipocrisie e i sempre altrui cortocircuiti. Zalone, il personaggio che interpreta, è una merda in mezzo a merde. Se prima, negli altri due film, poteva avere un ruolo tristemente salvifico (vi ricordate la tesi del terronismo che sconfigge il terrorismo di “Che bella giornata”) ora Luca Medici non fa sconti.
In una scena del film Zalone, parlando alla pancia di un gruppo di persone che assiste, insieme a lui, a un dibattito politico sulla crisi economica invita tutti a non pagare le tasse. Riceverà applausi. Lo stesso Zalone, però, con la sua ignoranza senza pudore (altro elemento chiaramente di destra) svelerà gli altarini (azioni di speculazione finanziaria) dell’uomo sul palco durante il dibattito (colui che, in virtù delle larghe intese e del rispetto per i diktat europei, ruba soldi allo Stato). E’ Zalone che, pur non avendo nessuna capacità genitoriale, aiuterà un bambino a uscire dal suo mutismo dimostrando lo stato di non adultità dei suoi contemporanei radical chic, engagé e infanti.
Non c’è futuro nel mondo di Zalone. Altro che non-luoghi, altro che tesi divulgative come la “liquidità” prive di qualsiasi spessore analitico. Non c’è nessuna nostalgia di un mondo perduto in Luca Medici. Non c’è nessuna luce in fondo alla crisi. Non c’è qualunquismo che salvi, non c’è berlusconismo che tenga, non c’è nessuna voglia di ricordare il Pci bolognese ai tempi di Zangheri e non c’è nessuna volontà di rifondarlo (che sia Renzi, Cuperlo o perfino il più onesto Civati). Non c’è drammaticità, non c’è bisogno di telecamere ondose, a mano, di mondi periferici alla Dardenne. Non c’è nemmeno cinema.
In “Sole a catinelle” viene raccontata (un racconto che fa tecnicamente ridere) quella sensazione con cui io e altri compagni siamo andati a votare negli ultimi anni: privi di partito, privi di rappresentanza, oltre il naso ben turato, oltre ogni fantascienza distopica. Come rifiutarsi di vedere un film che non rappresenta la realtà (non ha d’altronde nessuna pretesa rappresentativa) ma la ricalca come nessun altro? La realtà delle lose-lose situation.
p.s. I due bambini sono sopravvissuti ai nonni e non hanno mai pensato al suicidio.