di Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo
C’è una linea sottile tra l’avere torto ed essere dei visionari. Sfortunatamente per vederla si deve essere dei visionari
(Sheldon Cooper, The Big Bang Theory)
Il libro di Alberto Bagnai (Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur, Roma 2012) è un libro utile sia lo si condivida nelle sue tesi di fondo sia, come nel nostro caso, pur apprezzandone i meriti, si abbiano su punti chiave opinioni diverse.
Il libro è utile in primo luogo perché rappresenta uno sforzo divulgativo di alto livello; ciò consente a molti di potere comprendere il merito di complesse questioni economiche e di potere quindi partecipare a una discussione, sulle sorti dell’Italia, che si vuole ristretta a minoranze tecnocratiche.
In secondo luogo perché è tra i primi, e altrettanto sicuramente lo fa con massima radicalità, che da noi pone la questione della dissoluzione dell’unione monetaria, e propone seccamente l’uscita dall’euro: una posizione che in varia forma ha preso il largo, e oggi molti, in un modo o nell’altro, vi aderiscono, senza avere forse il coraggio dell’estremismo della tesi di Bagnai. Tesi discussa, da almeno due – tre anni, da altri economisti non ortodossi italiani (tra gli altri, Bellofiore, 2010), e comunque ben presente nel dibattito tra gli economisti a livello internazionale. I dubbi sulla sostenibilità dell’euro risalgono per altro alla sua stessa nascita. (Gaffard, 1992; Grahl, 1997; in tempi più recenti Vianello, 2013, e per un inquadramento generale Toporowski 2010 e Wray 2012).
Non era difficile, in verità, predirlo. Durante la fase del cosiddetto SME credibile (dal 1987 agli inizi del 1992), con cambi fissi fra le valute aderenti, situazione allora vista come una sorta di antipasto della moneta unica, le contraddizioni si andarono accumulando sino all’esplosione. Prima di passare alle nostre osservazioni critiche vanno messi nella dovuta evidenza i punti importanti che il libro mette in luce.
Dice innanzi tutto una cosa sacrosanta. Ogni economia vive di debito. Può essere il debito che l’imprenditore schumpeteriano ottiene dall’autentico banchiere che scommette su di lui, e che si vede ormai poco in giro. Anche il debito pubblico ha i suoi meriti. Basta vedere come nella crisi, benché tutti parlino male del debito pubblico, anche quando la crisi si dice provenga dalla crisi della finanza pubblica, nell’incertezza la caccia è innanzi tutto ai titoli di debito pubblico. Dopo di che giustamente Bagnai dice, attenzione che il debito privato è più rischioso e pericoloso del debito pubblico, e aggiunge, ancora a ragione, il vero problema è il debito estero.
È evidente che se c’è un debito c’è un credito. I bilanci dei macro-operatori – il settore privato, il settore pubblico ed il settore estero – sono connessi tra di loro, e tutti e tre insieme danno un saldo nullo. Se, per esempio, il settore estero fosse in pareggio, e se ci fosse un surplus del settore privato, ci deve essere un corrispondente deficit del settore pubblico. Se l’area dell’eurozona avesse un bilancio con l’estero pari a zero (ed è stato grosso modo così fino a un paio d’anni fa, ora il saldo è in leggero attivo), allora, perché ci sia un avanzo del settore privato, questo richiederebbe un bilancio negativo dell’operatore pubblico. Da questo punto di vista, si deve dire, i movimenti per il non pagamento del debito commettono spesso un errore elementare, si dimenticano che non pagare il debito vuol dire non pagare il creditore, ed è rilevantissimo a questo punto chi sia il creditore, e se sia possibile discriminare i creditori; tra i creditori dello stato vi sono spesso famiglie di classe media, non particolarmente ricche. La crisi dell’Europa, come altrove, non è affatto una crisi del debito pubblico ma è semmai una crisi del debito privato scaricata sulle finanze dei governi.
Il terzo punto importante – ed è questo, a noi pare, il fuoco del discorso di Alberto Bagnai – è l’attenzione prevalente, qualche volta addirittura esclusiva, al bilancio con l’estero, cioè alla bilancia dei pagamenti, ma forse più ancora alla bilancia delle partite correnti, e forse più ancora alla bilancia commerciale.
Indubbiamente, si tratta di un punto di vista importante per capire cosa sta succedendo in Europa, e nell’eurozona. Alcuni di noi – Bellofiore, assieme a Joseph Halevi – lo sostennero nel 2005 per un convegno di economisti italiani eterodossi, i quali ritenevano all’epoca che il problema cruciale fosse il Patto di Stabilità e la proposta da farsi la stabilizzazione del disavanzo dello stato. Noi lo vedevamo piuttosto come un’imposizione di natura prettamente politica, tant’è che fu infranto a ripetizione senza che ne subissero conseguenze paesi come la Germania e la Francia, e ritenevamo che i problemi strutturali richiedessero nel medio-termine di concordare, o imporre, un aumento del rapporto disavanzo/PIL in una logica di piano del lavoro. La questione dei disavanzi di partite correnti è sicuramente cruciale per comprendere come si configurano le relazioni tra nazioni e aree regionali in questo continente. Dopo un paio d’anni il tema degli squilibri commerciali interni all’eurozona è entrato nell’orizzonte degli economisti critici prendendosi la rivincita, perché quegli squilibri sono a questo punto diventati per loro il problema, attribuito per di più sic et simpliciter alla moneta unica; come più avanti argomenteremo meglio, questa tesi, che sembra condivisa da Bagnai, a noi pare una semplificazione eccessiva, come hanno ben messo in evidenza, in un loro recente saggio, Simonazzi (et al. 2013) [1].
Alberto Bagnai nel suo libro disegna molto bene la situazione squilibrata dell’economia europea, per cui c’è un’area, grosso modo il Centro Nord, in attivo sistematico, difeso ferreamente, e c’è l’area dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna e Grecia), il Sud Europa più l’Irlanda, che invece è in passivo. Bagnai quasi identifica la prima area con la Germania, si tratta invece della Germania con i suoi “satelliti”, una cosa un po’ diversa ora che anche quel blocco sta disgregandosi. È vero comunque che ereditiamo una divisione dell’Europa in due blocchi, da un lato quelli che esportano più di quanto importano, non solo all’esterno ma anche all’interno dell’area, e dall’altro quelli che importano più di quanto esportano. Tra i satelliti vi erano, almeno fino a poco tempo fa, l’Olanda, il Belgio, cui si aggiungevano la Svizzera e la Danimarca, che però stanno fuori dall’euro, vi erano poi l’Austria, la Finlandia, e ancora la Svezia che è fuori dall’euro. Bagnai chiarisce gli effetti devastanti di questa frattura, come questa divisione in due esistesse prima della nascita dell’euro, come sia stata aggravata dalla moneta unica.
Un quarto punto, infine, è il giusto rilievo dato da Bagnai al divorzio Tesoro-Banca Centrale del 1981, come un vero e proprio spartiacque nella storia italiana recente. Tale decisione – il divieto per la Banca centrale di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro e il ricorso quindi, senza salvagenti, al mercato finanziario per finanziare lo Stato, con il conseguente aumento vertiginoso dei tassi d’interesse – è, infatti, assimilabile alla controrivoluzione reaganiana e thatcheriana. Un evento catastrofico nelle sue conseguenze, all’origine dell’esplosione del debito pubblico, un segno del cambio di regime, assieme alla sconfitta alla Fiat nel settembre-ottobre 1980, che sanzionò la svolta nei rapporti di forza tra le classi, nel senso che “chiuse” i primi conti di una strategia di normalizzazione iniziata a metà degli anni Settanta, aprendo così la nuova fase.
Le nostre osservazioni critiche riguardano in primo luogo la storia dell’esperienza dell’euro come è ricostruita da Bagnai. Prima è utile ricordare che nell’analisi e nella proposta di Bagnai un concetto cardine, assieme all’indipendenza o meno della Banca Centrale, è la sovranità monetaria ed è per lui il criterio con cui analizzare le diverse fasi della storia economica italiana recente: prima e dopo la perdita della sovranità monetaria, a causa dell’adesione all’euro, e, durante le diverse fasi della partecipazione allo SME.
La differenza di valutazione nasce da una diversa idea dell’unità d’analisi necessaria a comprendere quanto è accaduto. Il discorso di Bagnai è spesso troppo rinchiuso nel contesto dell’eurozona, per di più con una opposizione troppo secca tra la Germania e il resto dei paesi. L’Europa sta nel mondo.
La storia dell’esperienza dell’euro, che va divisa tra il periodo degli albori (1999-2002) e poi la fase di realizzazione (2003 – 2013), appare in questa prospettiva alquanto diversa. Il disegno della moneta unica è un progetto francese, non tedesco. È un progetto costruito nel mondo di prima, non la risposta alla caduta del muro. L’idea dietro il trattato di Maastricht la superiorità del capitalismo europeo- continentale contro quello USA, salta in aria tra il 1992 e il 1993 proprio a causa della caduta del muro. Come l’Araba Fenice, è risorta dalle sue ceneri qualche anno dopo per più motivi, tra i quali la relativa debolezza (allora) della Germania e il grande rilancio egemonico del capitalismo USA [2]. Ciò che bisogna capire è che gli anni Novanta sono un decennio in cui la Germania è rivolta al suo interno, e patisce una qualche debolezza verso l’esterno, e ha dovuto accettare una moneta unica “larga” e non “stretta”, come probabilmente nelle sue intenzioni, cioè comprendente soltanto i suoi satelliti, ed eventualmente la Francia. Costretta a cedere, la Germania ha agito come sempre, dal Trattato di Maastricht alla crisi più recente: “scambiando” ogni passo in avanti verso una unione monetaria più integrata, con la previa imposizione di vincoli stretti sulla finanza pubblica (allora furono, prima i parametri sulla finanza pubblica, poi il Patto di Stabilità, negli anni a noi più vicini il Fiscal Compact). Salvo essere lei stessa, sinora, a infrangerli – non si dimentichi che la stessa ripresa ormai evanescente dell’economia tedesca degli anni più recenti è dovuta in primis a (intelligenti) politiche attive di disavanzo keynesiano in risposta alla crisi del 2008.
Perché andò in questo modo? L’euro riparte perché negli anni Novanta gli Stati Uniti diventano di nuovo un traino dell’economia mondiale, nelle forme contraddittorie della new economy. Sono anni in cui i tassi di interesse, oltre che l’inflazione, declinano, mentre i tassi di crescita degli Stati Uniti forniscono sbocchi alle economie neomercantiliste, come quella tedesca e italiana. In occasione del primo decennio della moneta unica, un attimo prima che la crisi investisse l’Europa, nel 2008, si sono sprecate le iniziative e gli articoli che ne celebravano il successo. Al di là di crederci o non crederci va spiegato per quale motivo la moneta unica è parsa, fino alla crisi, un modello di successo, e per quale ragione l’area europea sia poi sprofondata nella crisi. La nostra tesi, a differenza di quella di Bagnai, è che l’elemento scatenante non sia affatto riconducibile alla bizzarra costruzione dell’euro, per le sue contraddizioni (che ci sono). Non sono stati gli squilibri commerciali, e neanche quelli della finanza pubblica. È stata una crisi importata dall’esterno, un rimbalzo violento della crisi globale nata negli Stati Uniti. Una grande crisi del capitalismo. Questo segna una novità enorme. Noi parliamo di una crisi dell’Europa e dell’euro dentro una crisi finale del neoliberismo, cioè dentro una crisi lunga, di quelle che segnano uno spartiacque tra una fase e l’altra del capitalismo: e noi siamo nel bel mezzo della transizione, senza poter intravedere lo sbocco. Ogni parallelo tra un’eventuale uscita dall’euro e svalutazioni precedenti, che è l’argomento centrale di Bagnai sul perché e sul come bisogna uscire dall’euro, è inficiato anche solo per questa considerazione.
La crisi europea non nasce dall’interno, nasce dal crollo del modello di capitalismo anglosassone, il cui centro sono stati gli USA, basato sul consumo a debito e su un certo tipo di finanza. È quel modello che ha consentito ai modelli neomercantilisti, che fanno profitti dalle esportazioni nette, di prosperare, trovando sbocchi alle proprie merci. Le due cose vanno in qualche modo legate, e qui il libro ha un buco, non lo fa, ed è un limite non da poco. Non si può replicare che è un’obiezione illegittima, un parlare d’altro. Si parla della cosa stessa.
Infatti, il progetto dell’euro e il suo concreto svolgimento, contraddizioni comprese, sono difficilmente comprensibili senza riferirsi all‘economia reale, all’obiettivo cioè, prima francese, coi campioni settoriali governati politicamente, poi tedesco, con la selezione naturale per via di mercato e di capacità innovativa, di costruzione di un unico capitalismo europeo industriale e manifatturiero che privilegiasse le esportazioni. L’assunto implicito di tale scelta era che la globalizzazione in concreto significasse l’inizio di una guerra commerciale globale per conquistare i nuovi mercati emergenti, nel mentre si doveva consolidare il mercato interno europeo come il “cortile di casa” di questo nuovo capitalismo europeo. Un cortile di casa il cui obiettivo strategico era quello di posporre ogni altra considerazione alla competitività delle sue industrie con una discriminazione interna, verificata sia dalla capacità di ciascuna impresa di occupare il mercato interno che quello globale. In questa prospettiva le bilance commerciali sono sì un indicatore chiave, ma un indicatore, appunto, di una gigantesca e continua ristrutturazione industriale e di ridefinizione del potere di mercato delle singole imprese, non solo in Europa ma a livello globale. In questa prospettiva neomercantilistica e di forzatura sulla competitività si capisce meglio come il destino dell’euro sia fortemente dipendente dall’economia globale, più specificatamente dal livello di sovrapproduzione relativa sia a livello globale sia tra le aree geopolitiche; in questa partita le scelte politiche e istituzionali delle autorità nazionali e sovranazionali hanno un peso rilevante.
Alberto Bagnai propone, con molta coerenza e con molta chiarezza, che è bene uscire dall’euro, senza se e senza ma. Il sottotitolo del suo libro recita: “come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa”. Per rispondere alle critiche a questa prospettiva, che non può non dar luogo a una subitanea svalutazione, per valutarne conseguenze e dimensioni, Bagnai ripercorre alcuni degli episodi passati di svalutazione del nostro paese. Lo fa però, di nuovo, quasi come se il quadro storico, il contesto generale e le scelte politiche e istituzionali non contassero. Non è così. La vicenda del cambio del nostro paese è più articolata, e piena di insegnamenti.
È utile partire da una crisi in cui la svalutazione non ci fu, la crisi del 1963-1964. Vigeva allora il sistema dei cambi fissi (benché aggiustabili) pattuito a Bretton Woods. Le lotte salariali, conseguenza del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni ruggenti del miracolo economico di fine Cinquanta-primissimi Sessanta, rovesciarono in un anno solo il rapporto salario-produttività dal 1950. Eravamo uno stato-nazione indipendente, con sovranità monetaria, e una Banca Centrale non autonoma dal Tesoro, condizioni ottimali nell’ipotesi di Bagnai. Il Governatore della Banca Centrale, malgrado ciò optò per una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite di una strategia inflazionistica, sostenendola con la tesi che alti profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità erano andati in rosso anche i movimenti di capitale, per fughe illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180 gradi, verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi una caduta degli investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani – questa purtroppo è una storia di lungo periodo e a nostro parere (che qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine delle traversie del nostro paese – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto distributivo in un’ottica di qualche respiro.
A conferma di quanto dice De Cecco, è bene ricordare che, caduto il fascismo, la scuola liberale, sfruttando anche la scelta delle sinistre di lavorare per la ricostruzione del paese senza porre problemi di controllo statale dell’economia, attuò una politica liberista pura, unico paese del dopoguerra, senza porsi un problema di transizione, anzi “volendo consolidare i vecchi rapporti economico-finanziari, all’interno dei gruppi privati e fra tali gruppi e l’apparato statale” (Daneo 1975:155). L’Italia, infatti, spicca, tra i paesi europei destinatari del piano Marshall, per una politica economica a tal punto di rigorosa cautela da provocare le critiche dell’amministrazione americana dei fondi ERP (European Recovery Program). Insomma, nel mentre in Europa si sviluppava il piano Beveridge, in Inghilterra e il piano Monet in Francia, in Italia si attuava un riaggiustamento selvaggio secondo principi liberisti – un ritirarsi dello Stato – motivato dal fatto che la presenza dello Stato in assenza del controllo poliziesco sui lavoratori ed il sindacato era potenzialmente pericoloso. Si determina così un intreccio perverso tra liberismo, proclamato in chiave di controllo sociale, e politiche di freno alla crescita della base produttiva (nel 1946 la produzione industriale fu pari ad un terzo delle possibilità tecniche, Daneo, 1975: 155). La situazione divenne a tal punto ingovernabile – una iperinflazione fuori controllo – che nel ’46 si ebbe un parziale sblocco dei licenziamenti ed una tregua salariale la tregua salariale che aprì la strada, nel ’47, alla svolta deflattiva: la così detta stabilizzazione che si tradusse in una stagnazione produttiva rotta solo negli anni ’50 (Daneo, 1975).
Ciò che si vuole metter in luce è che l’uscita dal fascismo, riaprendo una sia pur timida, ipercentralizzata e fortemente controllata dalla convenienza politica, dinamica tra capitale e lavoro, spinge i gruppi dirigenti a respingere l’idea, affacciata da Togliatti, di un patto di solidarietà nazionale, cioè di una uscita lunga e regolata dalle distruzioni della guerra – come in Inghilterra e Francia -e dalla ingessatura fascista della società e dell’economia italiana. Liberismo significa liquidare l’ingerenza statale fascista e lasciare che il mercato si autoregoli ma, quando l’ipotesi naufraga nella iperinflazione, allora si dà inizio ad una ristrutturazione finanziata dallo Stato e dai fondi ERP (Daneo , 1975), in una ipotesi di rigorosa cautela, sfruttando la moderazione rivendicativa e salariale offerta per favorire la ripresa. L’idea che la rottura con lo stato fascista significasse introdurre i diritti sociali, in corso di affermazione in Inghilterra, veniva esplicitamente scartata; impressionante in uno scritto di Einaudi (1942), il brano riportata da Daneo (1975: 109):
anche là dove la macchina comanda, dove la concorrenza impone al massimo la divisione del lavoro, importa porre una diga, molte dighe al dilagare del livellamento (…) ponendo un limite al crescere delle città industriali.(…) Se anche ne andrà di mezzo una parte, forse grande, della moderna legislazione sociale di tutela universale e sulle assicurazioni in caso di malattie, disoccupazione, vecchiaia, invalidità, se anche ne usciranno stremate le organizzazioni coattive in cui oggi i lavoratori sono classificati [i sindacati], poco male. Anzi, molto bene, se così avremo ridato agli uomini il senso della vita morale, della indipendenza materiale e spirituale.
Questo pensiero einaudiano ricorda niente?
Alla metà degli anni Sessanta vivemmo dunque una ristrutturazione senza investimenti. La ripresa dell’accumulazione della fine degli anni Sessanta fu dovuta in primo luogo ad un aumento selvaggio dell’intensità di lavoro, ben rappresentato in film come La classe operaia va in Paradiso. È da allora che si è imboccata la via della crisi della grande industria, e dello smantellamento di buona parte della nostra base industriale.
Il secondo grande episodio inflazionistico, in condizioni non poco diverse, è quello degli anni Settanta. Il sistema di Bretton Woods collassa tra il 1971 e il 1972, e l’Italia entra nel mondo dei cambi flessibili tra il 1972 e il 1973, dopo una presenza fugace nel serpente monetario. Gli aumenti di salario superiori agli aumenti di produttività furono accompagnati da una serie di svalutazioni tra il 1973 e il 1979. Quello che, con riferimento al 1974-1975, fu chiamato il processo di disinflazione dell’economia mondiale non fu un processo neutrale rispetto alle classi e non può essere letto solo in termini di economia nazionale. Si poteva scegliere tra diverse modalità e si scelse di fare precipitare ciò che in teoria (con i cambi fluttuanti, in particolare) avrebbe dovuto evitare, una prova di forza interna verso il movimento operaio e sindacale. (Biasco, 1979: 120-123)
Alberto Bagnai ne parla, ma a noi pare non ne chiarisca gli aspetti più significativi: importanti, perché il “successo” di quella manovra, se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di svalutazione che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la rendevano possibile. Il contesto internazionale era quello di un dollaro che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La scelta politica delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e dunque di svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal lato delle importazioni (dove la valuta significativa era per noi quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione (la nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del marco).Ciò consentì di dare una mano alle imprese nel conflitto distributivo con i salari. Una svalutazione “differenziata” e non socialmente neutrale.
L’altra cosa di rilievo che ci pare assente nel libro di Alberto Bagnai è che le svalutazioni degli anni Settanta furono svalutazioni eccedenti quella che era stata l’inflazione passata, e la cosa non si ripeté successivamente. Per questa ragione negli anni Settanta le svalutazioni offrivano subito un vantaggio competitivo alle industrie italiane, cosa che non accadde più in seguito. Per Bagnai la possibilità di un rilancio produttivo a seguito di una inflazione guidata, come secondo lui, sarebbe possibile nel caso di un abbandono unilaterale dell’euro da parte dell’Italia, è un dato incontestabile. Non fu così allora.
Le imprese italiane, infatti, cosa fecero nella loro grande maggioranza? Fecero, mutatis mutandis, come negli anni Sessanta rispetto alla manovra prima inflazionistica e poi deflazionistica: accolsero con gratitudine l’aiuto, alzarono i prezzi, e si guardarono bene da un impiego del vantaggio competitivo che così era loro temporaneamente concesso per migliorare in modo strutturale e permanente sui mercati esteri, a differenza di ciò che fece ad esempio la Germania. È chiaro che una risposta di lungo periodo al conflitto distributivo sarebbe stata l’aumento della produttività attraverso una strategia di investimenti. Negli anni Settanta l’industria italiana usò invece la svalutazione non per aumentare le quote di mercato, ma per aumentare i prezzi, dissolvendone rapidamente i vantaggi senza lasciare un sedimento positivo permanente.
Nel 1976 ci fu un altro picco di svalutazione. Eravamo anche qui uno stato sovrano, con la propria Banca Centrale, non divorziata dal Tesoro. Non di meno dovemmo ricorrere all’FMI, che ci impose (a noi come alla Gran Bretagna) delle condizioni dure. La storia degli anni successivi fu dovuta anche a ciò, oltre alla circostanza che il Partito Comunista Italiano aderì alla politica di solidarietà nazionale. La svalutazione fu, da molti punti di vista, un’occasione persa. E un episodio della normalizzazione e ristrutturazione del “caso” italiano: per quello disegnata, per quello agita.
Gli anni Ottanta sono tutta un’altra storia, divisa per di più in due fasi, se non tre. Il periodo dal 1980 al 1987 è caratterizzato dal fatto che l’Italia, che è entrata nel Sistema Monetario Europeo, vive sì altre svalutazioni, ma queste ultime sono sempre inferiori all’inflazione passata, non consentono perciò alcun recupero del guadagno competitivo, e non permettono di conseguenza alle imprese di proseguire nella strategia accomodante sul terreno del salario. Secondo autori come Giavazzi e Pagano vi sarebbero dei vantaggi nel “legarsi le mani”. Si può così razionalizzare la scelta di aderire allo SME. La Banca d’Italia, in accordo con il Tesoro, era convinta che impedire svalutazioni “competitive” avrebbe imposto la ristrutturazione del sistema produttivo italiano (il che fu vero, ma in termini di puro adeguamento tecnologico, non di autentica innovazione, come sostiene a ragione Graziani, 2000). E si era per di più convinti, del tutto a torto, come Bagnai dimostra e come tutti dovremmo sapere, che in questo modo si costringeva lo Stato a spendere meno. La spesa sociale corrente iniziava a venire compressa, è vero, ma, al suo posto, cresceva la spesa per interessi, dato il forzato ricorso del governo al finanziamento sul mercato dei titoli, a causa del divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro avvenuta nel 1981, in un decennio di alto costo del denaro. L’aumento del rapporto debito pubblico/PIL è poi da attribuire in larga misura all’andamento del denominatore.
Un’altra cosa che va detta è che in questi anni la situazione del cambio marco-dollaro si è totalmente invertita nella prima metà degli anni Ottanta: è il dollaro che tende a rivalutare, mentre il marco tende corrispettivamente a svalutarsi. La politica della svalutazione differenziata non era più praticabile. C’è un interludio, 1985-87 (un interludio in cui cambia di nuovo la situazione globale sul terreno dei cambi). Dal 1980 al 1985 la lira godeva di una banda di oscillazione più larga di quella concessa agli altri aderenti all’accordo valutario, dal 1985 al 1987 rientra nella fascia ristretta. Si arriva così al periodo dello SME credibile, 1987-1992. Una cosa che va detta, e lo stesso Bagnai a un certo punto del suo libro la ricorda, è che non esiste il mercato libero dei cambi. I cambi sono sempre sporchi, la loro fluttuazione sempre manovrata. Francesco Farina, Adriano Giannola e Ugo Marani all’epoca sostennero, a ragione, che in quel periodo la lira fosse una valuta forte (tanto che premeva sulla fascia superiore, non quella inferiore della banda di oscillazione) perché la Banca Centrale manteneva il tasso d’interesse più alto di quanto sarebbe stato richiesto dalle altre condizioni dell’economia, incluso lo stato della finanza pubblica [3]. La ratio era, ancora una volta, quella di premere sulla ristrutturazione interna delle imprese e sulla compressione del disavanzo pubblico di parte corrente al netto degli interessi. E così dall’inizio degli anni ’90 che noi viviamo in un universo di avanzi primari del settore pubblico che si accumulano, senza sollievo alcuno della situazione.
In queste vicende ebbe un ruolo significativo l’accordo sulla scala mobile del dicembre del 1975 che tutelava il salario lordo della gran parte dei lavoratori al 100%. Ottima cosa, si dirà. Peccato che era entrato in vigore, da pochissimo, un sistema fiscale progressivo, per cui quando aumentavano i redditi monetari (per esempio i salari, causa l’inflazione elevata, a sua volta favorita dalla svalutazione), aumentava il prelievo fiscale, e dunque il salario reale al netto delle tasse cadeva anche se era tutelato al lordo. Quei soldi cosa sono andati a finanziare? Sono andati a finanziare la ristrutturazione dell’impresa privata, dentro il nuovo quadro di rapporti di forza che si andava delineando. A questo era servita la svalutazione di uno stato sovrano monetariamente.
Insomma, la storia della svalutazione, è una storia complicata: sempre segnata dal rapporto capitale-lavoro, dalle vicende dell’industria e delle banche, dalle scelte autonome di politica economica. E quando non c’era l’euro, l’imposizione si chiamava comunque vincolo esterno.
Arriva il 1992. Non fu una catastrofe, ci dice Bagnai. No, la svalutazione del 1992 non fu una catastrofe: se non per un soggetto. Non che si stesse bene prima (il declino dell’autonomia sindacale data dalla seconda metà degli anni Settanta, e aveva vissuto già gravi colpi come la Fiat o il referendum della scala mobile). Ma certo la pietra tombale sulla scala mobile, per quel poco che ne era rimasto, e l’inizio di una lunga lotta di svuotamento della contrattazione nazionale collettiva, hanno nel 1992 un anno di realizzazione e drammatica accelerazione.
Lamberto Dini, allora Direttore Generale della Banca d’Italia, al convegno dell’AIOTE (associazione degli operatori in titoli esteri) nel Giugno del 1993, invitò le imprese “a trasformare il margine offerto dal più basso valore della lira in un duraturo guadagno di competitività e di quote di mercato, piuttosto che in un effimero recupero di profitti” e definì la manovra come il raggiungimento di “una dinamica del costo unitario del lavoro che seguiti ad essere allineata a quella dei principali paesi concorrenti”, costruendo così i “capisaldi di un circolo virtuoso, che potrà coniugare aggiustamento della bilancia dei pagamenti, rientro dell’ inflazione e stimolo allo sviluppo. Ne conseguirà per l’economia la possibilità di beneficiare anche di una sostenibile tendenza al ribasso dei tassi di interesse reali e di un cambio stabile”. Se l’economia italiana “procederà lungo la strada intrapresa – disse Dini – quella del risanamento della finanza pubblica della moderazione nella dinamica dei redditi, potrà trasformare il trauma della svalutazione in una rinnovata occasione di crescita del prodotto e dell’occupazione”. Su questa base fu costruito l’accordo di concertazione del 1993, ma del circolo virtuoso non ci fu traccia e, dopo due anni, fonti sindacali [4] già denunciavano la deriva di quell’accordo nella direzione di una riduzione drastica del peso del monte salari nel reddito nazionale.
“Noi” riacquistammo allora la sovranità monetaria, dice Bagnai. Ma chi è quel “noi”. Il popolo italiano? Lo stato italiano? La svalutazione fece ripartire la piccola impresa (la grande impresa privata entrava in una crisi con pochi margini di respiro, quella pubblica venne di fatto svenduta), e certe regioni del paese. L’inflazione, è vero, non ripartì, perché i salari vennero compressi, complice la concertazione, e perché la torsione verso l’austerità divenne ora sistematica. Il riaggancio all’euro fu comunque dovuto alla ripresa della new economy, alla caduta esogena dei tassi d’interesse, al rallentamento dell’inflazione importata, e così via.
Non sapremmo trovare parole migliori su quella esperienza quelle che pronunciò Augusto Graziani nel 1994 ad un convegno sullo SME – parole che sono di monito a chi veda nell’uscita dall’euro e nella conseguente svalutazione una sorta di “salvezza”:
c’è un altro problema, cioè che questo ritorno a una politica della svalutazione come protezione delle esportazioni e della politica di sviluppo guidata dalle esportazioni è una politica che, da un lato, ha degli effetti diseguali dal punto di vista territoriale sullo sviluppo del nostro paese perché avvantaggia largamente le regioni della piccola e media impresa esportatrici, mentre penalizza tutte le altre regioni che non sono in grado di trarre vantaggio dalla svalutazione. E poi è, ancora una volta, una politica di sostegno all’industria, attraverso la svalutazione e non attraverso l’avanzamento tecnologico [5].
Nel libro di Bagnai, non a caso, vi è un’assenza assoluta di analisi della struttura industriale ed economica europea, prima e dopo l’Unione Europea e la creazione dell’Euro, e delle ragioni geopolitiche, oltre che economiche, del modificarsi dei rapporti interni all’area dei paesi aderenti all’Unione Europea. Analisi, queste, che sono essenziali per spiegare il perché del successo della politica neomercatilista tedesca e la direzione dei processi di ristrutturazione messi in moto dalla nascita dell’Unione Europea e dell’Unione Monetaria Europea (Bellofiore, 2013; Simonazzi, et al, 2013, Bellofiore e Garibaldo, 2011, Garibaldo et al., 2012). In questa prospettiva analitica gli aspetti qualitativi della produzione e il posizionamento relativo dei settori chiave dei singoli paesi nella divisione del lavoro globale e interna all’Unione Europea acquistano un carattere discriminante nel giudicare i margini odierni di una classica manovra di inflazione/svalutazione; di qui i dubbi espressi da Simonazzi (et al, 2013: 670-673) sul fatto che manovrando solo le leve macroeconomiche senza mettere mano a scelte di politica industriale e di politica sociale e del lavoro si possa uscire dalla drammatica situazione attuale.
Il secondo gruppo di obiezioni che facciamo al libro di Bagnai riguarda il ruolo delle tecnocrazie sovranazionali, la BCE in Europa ad esempio, e nazionali, la FED negli USA e quello delle autorità politiche, ad esempio il governo Abe in Giappone. Queste autorità hanno un mandato manifesto, definito per legge, ma anche spesso un’agenda non manifesta, una strategia che discende non solo da una valutazione della realtà ma da un progetto d’intervento trasformativo della realtà.
Proviamo, per esempio, a prendere sul serio Mario Draghi quando dice – in un discorso a Londra del luglio dell’anno scorso – che lui farà whatever it takes per evitare la dissoluzione della moneta unica – al che fa seguire, un po’ come in un film di Scorsese, la battuta “e vi assicuro, sarà abbastanza”. Una cosa a cui nel libro non si presta adeguata attenzione è l’entità del cambiamento istituzionale nell’eurozona, a partire dalla Banca Centrale Europea, almeno dopo Lehman Brothers, cioè dopo il settembre 2008, già con Trichet e poi ancor di più con Draghi. Gli economisti e gli analisti sociali critici, come noi, sono bravissimi a rivelare la massa di contraddizioni delle istituzioni europee in un momento dato, e a dedurne (prendendo a questo punto quel contesto istituzionale come un dato) le catastrofi prossime venture. Solo che quelle contraddizioni medesime, con le crisi che esse stesse provocano, impongono, come dice Soros con la teoria della riflessività, il cambiamento, e quel cambiamento sospende per un po’ la crisi, e la catastrofe viene rimandata. Non succede per caso, o reattivamente. È parte della strategia di Draghi, e non solo.
Il meccanismo che Mario Draghi ha costruito tra luglio e settembre dell’anno passato la Outright Monetary Transaction – la promessa di un acquisto illimitato di titoli di stato sul mercato secondario, condizionata alla richiesta esplicita degli stati e, in buona misura, alla loro accettazione di un controllo esterno sulle loro politiche – non sta in piedi. Infatti, nessuno l’ha chiesta (anche se non crediamo che il punto di Draghi fosse allora chiedere più austerità, semmai mettere in sicurezza quanto già gli stati andavano decidendo: come sempre, un gioco sulle aspettative). Se mai venisse davvero messa in opera, se ne rivelerebbero tutte le pecche e i problemi che essa comporterebbe [6], come mette in evidenza Stark, uno dei due membri tedeschi dimessisi della BCE a causa della scelta di Draghi. Fino ad adesso è bastato l’annuncio perché la situazione di drammatizzazione sulle sorti dell’euro di un anno fa rientrasse, e gli spread si sgonfiassero rispetto ai livelli di allora. La riflessività degli agenti istituzionali, ma anche privati e le scelte non ortodosse che ne conseguono cambiano la situazione e per esempio può succedere che l’euro, invece di esplodere subito, abbia la possibilità di sopravvivere.
Dal nostro punto di vista questo non rappresenta necessariamente un miglioramento della situazione; Hans-Werner Sinn [7] dice che l’unica strada è “muddling through”, cioè tirare a campare, avrebbe detto Andreotti. Tirare a campare in questa situazione vuol dire condannare milioni di persone a una situazione sociale intollerabile.
Draghi utilizza un approccio che può non piacerci, quello secondo cui in Europa le cose cambiano solo grazie alla crisi, e lo gioca all’interno di un sapiente progetto politico volto a favorire la costituzione di un capitale tendenzialmente unificato su scala europea, che impone regole non soltanto ai lavoratori, ma anche alle varie frazioni della finanza e dell’industria dell’area. La Merkel si è alleata a Draghi: ha praticamente licenziato, o accettato il licenziamento (che è la stessa cosa), di due membri tedeschi della BCE provenienti dalla Bundesbank, tra cui Stark. Ci sono forze e idee che si stanno dislocando direttamente su un contesto sovranazionale, europeo. Per questo progetto l’euro è essenziale, e verrà difeso con determinazione. Tale difesa interagisce, e interagirà, con i calcoli strategici della FED, così come con la scelta aggressiva del governo Abe, in Giappone, e la scelta di riequilibrio tra mercato interno e strategia esportatrice del governo cinese, mettendo così in moto nuovi circuiti di riflessività. Questi circuiti interagenti devono fare i conti con una situazione inedita della crisi globale, una situazione nella quale ogni attore rilevante, con un ridimensionamento cinese volto al suo sistema economico, sembra volere ripartire dalla produzione manifatturiera come fattore guida di una strategia espansiva di tipo neomercantile.
La sopravvivenza dell’euro nel breve e nel medio termine, in questo quadro, non può che danneggiare il lavoro e le classi popolari. Senza peraltro che vi sia garanzia alcuna che la moneta unica sia davvero in grado di costituirsi su base stabile, fuori dalla tempesta, nel lungo termine. Per quanti siano gli sforzi, l’euro non potrà che rimandare la sua fine, se non cambia pelle e natura, o passare, più che attraverso crisi, attraverso catastrofi (basta ricordarsi come si sono costituite le unioni monetarie dollaro e lira: non ne sappiamo abbastanza, ma sospettiamo che non sia troppo diverso per l’unione monetaria marco). La tendenza deflazionistica implicita non solo nella struttura istituzionale della moneta unica come fu disegnata al suo parto, ma anche insita nel disegno di Draghi per spingere ristrutturazione del lavoro, regolazione delle frazioni del capitale, transizione da una visione sostanzialmente confederale a una autenticamente federale, non può reggere a meno che lo sviluppo capitalistico non riparta altrove. Non si vede però oggi chi sia l’acquirente finale di una strategia neomercantile, tanto più che gli Stati Uniti vorrebbero essi stessi tornare a far parte degli esportatori netti. Non si vede delinearsi la forma del nuovo capitalismo. È un quadro aperto, e fosco.
Ma il “tempo comprato” – qui vale più l’inglese, buying time, che il nostro tempo guadagnato – da Draghi a favore del progetto dell’euro significa due cose importanti. Ci rammenta che il problema del soggetto su una scala immediatamente europea non può non porsi anche dal lato del lavoro e dei movimenti. Davvero non si capisce perché la sinistra, sia sindacale sia politica, italiana predichi un internazionalismo astratto, parli così tanto di globalizzazione, ma stia chiusa in un recinto di analisi e proposte così strettamente nazionale. Lo stesso è vero per l’atteggiamento degli economisti e degli analisti sociali critici sull’euro: se si cancella l’unione monetaria all’inizio di un ragionamento, non è strano che alla fine un’unione monetaria non esista più nel proprio discorso, e che non si vedano neanche le forze che la perpetuano. Se la categoria chiave del discorso sulla moneta o l’industria o la banca è la nazione, se si pensa che non sia comunque possibile una transfer union, una banking union e così via, è ovvio che l’euro non può sopravvivere. Draghi tutte queste cose le sa benissimo (la sua tesi di laurea con Federico Caffè era critica del progetto di moneta unica!), tant’è che ha definito la moneta unica come un calabrone: non dovrebbe volare ma vola, ha volato. Se vogliamo che continui a volare – l’ha detto, evidentemente, dal suo lato della barricata – si deve produrre un cambiamento strutturale di portata enorme, perché il capitalismo è cambiato, vive una nuova fase, e questo cambiamento avverrà spinto dalle crisi. Una coscienza della sfida analoga latita dal lato del lavoro, dei soggetti sociali, dei movimenti sociali, come ha osservato recentemente anche Brancaccio (2013), anche se il suo ragionamento continua a restare nell’ambito di una prospettiva ancora una volta sostanzialmente nazionale. Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale è di questa natura, ed è sostanzialmente consolatorio.
Se dunque l’euro è difficile che alla lunga possa vivere, così com’è, per le sue contraddizioni interne e se è vero che la determinazione a farlo vivere è nondimeno potente, allora quello che ci attende – per citare una poesia famosa di T.S. Eliot – non è che questo mondo finisca con un bang, cioè con una esplosione, ma con un whimper, con un gemito.
C’era una alternativa alla moneta unica negli anni Novanta? E c’è oggi, nella crisi, qualcosa che non sia il puro semplice ritorno al passato? A metà degli anni Novanta vi era, tra gli economisti, già chi pensava che ci fosse un’alternativa alle monete nazionali, e alla forbice deflazione competitiva (tedesca) versus svalutazioni (italiane), un’alternativa che non fosse la moneta unica. Tutti i limiti dell’euro erano noti ante litteram, basta andarsi a leggere un economista non certo radicalissimo come Jean Luc Gaffard, su Le Monde Diplomatique del 1992. L’alternativa possibile alla moneta unica è quella che i francesi, che sono bravissimi nelle distinzioni, chiamano moneta comune. La differenza tra moneta unica e moneta comune un qualche interesse ce l’ha. La moneta unica è anche circolante tra i cittadini dell’area. La moneta comune è invece soltanto mezzo di pagamento tra le banche centrali aderenti all’unione. Ogni nazione mantiene la sua moneta, i vari aderenti mantengono cambi fissi ma esistono alla bisogna margini di flessibilità. Se c’è uno squilibrio grave che nel medio periodo non possa essere aggiustato dall’espansione dei paesi in avanzo, viene consentita una svalutazione, mentre intanto la Banca Centrale Europea ha il potere di far credito alle aree in crisi, come anche ai governi. Non è un’idea di un’originalità devastante, è l’applicazione all’Europa di un’idea di Keynes del 1944, è il progetto di una qualche Bretton Woods europea. In questo orizzonte aveva scritto cose di grande interesse una marxista solida come Suzanne de Brunhoff (1997).
La nostra convinzione è che una pura e semplice uscita dall’euro non sia la soluzione, che anzi gli effetti domino possono essere gravi, e la pressione per l’austerità che ne risulterebbe più e non meno elevata. Ma non crediamo che cambi il segno di questa uscita dalla moneta unica la pura difesa del lavoro su scala nazionale, o di un’area particolare d’Europa (detto tra parentesi, le contraddizioni dell’euro si ripeterebbero su una scala minore, come se per esempio si volesse costruire l’Europa del Sud). Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica, o della transizione alla moneta comune. L’alternativa vera che abbiamo davanti non ci pare essere quella tra esplosione a breve dell’area dell’euro o ritorno alle valute nazionali in Europa, ma semmai quella tra stagnazione prolungata (funzionale alla ristrutturazione contro il lavoro, contro le donne, contro i soggetti sociali) o lotte transnazionali in grado di imporre un vincolo sociale e un cambio di rotta. La questione autentica non è euro sì euro no, ma come si devono configurare la lotta di classe e le lotte sociali per poter riaprire quegli spazi che oggi non possono non apparire, allo stato delle cose, inesorabilmente chiusi, come in una cappa d’acciaio.
Bibliografia
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NOTE
- [1] Si veda anche De Cecco 2012
- [2] Per uno sviluppo di queste tesi cfr. Riccardo Bellofiore 2013
- [3] Rimandiamo a Farina 1990, e più in generale al volume di cui quel saggio è parte Giannola-Marani 1990
- [4] Si veda Sabattini (1995)
- [5] Il riferimento è a Graziani (1994)
- [6] Cfr. De Cecco (2013)
- [7] Cfr. Sinn (2013)
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta lo scorso 30 settembre