di Francesco Bravi
Buyout, nel gergo tecnico si chiamano così. Tradotto in termini concreti, si tratta di quelle operazioni attraverso cui un gruppo di gestori subentrano nella direzione di un’attività: l’unico rimedio alla chiusura, quando è fallita o compromessa. Una risorsa tecnica che, nel contesto della crisi, è diventata qualcosa di più, e cioè il tentativo in embrione di un programma sociale e un progetto di modalità alternative di produzione. È questa infatti la base su cui i lavoratori di diverse aziende hanno costruito le loro esperienze di autogestione.
Alcune storie di fabbriche ieri chiuse e oggi “recuperate” sembrano delineare vere e proprie vite parallele. Le loro vicende si assomigliano, da un capo all’altro dell’Italia: una proprietà multinazionale è scappata, vittima dei suoi stessi debiti, e gli operai hanno dovuto scegliere tra un presidio, magari lungo mesi, di impianti e capannoni, e la dispersione di sapere e patrimonio produttivo.
Hanno costituito quindi delle cooperative e si sono rimessi a lavorare da soli, rovesciando la propria posizione attorno allo scacchiere della desertificazione industriale, da pedine a giocatori, padroni almeno del proprio destino. Casi emblematici, insomma, di un tempo come il nostro di distruzione dell’occupazione e rinuncia a qualsivoglia industria – anche se in buona salute, perché la speculazione fa moltiplicare il denaro di più e più rapidamente della produzione -, salvo che nell’esito: un finale di rinascita. Come alla Maflow, nell’area di Milano sud, o alla ex Evotape, tra Santi Cosma e Damiano e Castelforte, in provincia di Latina.
A Trezzano sul Naviglio un tempo la Maflow faceva tubi di gomma vulcanizzata per impianti di climatizzazione, servosterzo e trasmissione di liquidi nelle autovetture. Era un attivissimo stabilimento dell’indotto automobilistico parte di un altrettanto fiorente gruppo multinazionale. Nel ’99, Maflow viene acquisita dalla Manuli Rubber, che dopo poco però scorpora il ramo della holding che fa componentistica auto cedendolo a un fondo di private equity. Una storia già vista dagli esiti già noti.
È il 2007 e Maflow sembra nella sua fase di massima espansione: è una multinazionale a capitale italiano con 23 stabilimenti in tutto il mondo (Europa, Americhe, Asia). Eppure, dopo appena due anni, è il crac: un rosso profondo che il Tribunale di Milano quantifica in almeno 140 milioni, prodotto di perdite su operazioni finanziarie che il nuovo azionista ha scaricato su Maflow, un’azienda fino ad allora perfettamente efficiente, e che tra i committenti aveva colossi come Bmw, cui destinava addirittura l’80% della propria produzione.
I 320 dipendenti dello stabilimento scoprono così che il gigante Maflow ha i piedi di argilla. Trascorre un anno e mezzo di purgatorio in amministrazione straordinaria, in cui l’azienda, data l’incertezza della sua situazione, perde la maggior parte delle sue commissioni, fino a quando un imprenditore polacco non rileva l’attività, riassumendo però solo 80 dei vecchi dipendenti dello stabilimento di Trezzano e lasciandone dunque a languire 240 in cassa integrazione. Ma la passività per questi lavoratori non è un’opzione, ed essi proseguono la mobilitazione che già avevano iniziato l’anno precedente per riportare in fabbrica gli ordini degli ex committenti che l’hanno ormai tagliata fuori dai loro piani.
Così quando, dopo due anni, nel dicembre 2012, il nuovo proprietario polacco chiude l’azienda, i lavoratori sono già intenzionati a formare una cooperativa, “una società di mutuo soccorso, in cui – per usare le stesse parole dei protagonisti – il lavoro invece che cercato all’esterno, dove non c’è, venga creato dall’interno, e permetta a tutti di sostenersi”. Nel marzo del 2013, il progetto vede finalmente la luce. Della rinascita, di quello che oggi fa ed è, la nuova onlus porta traccia fin dal nome: Ri-Maflow, come “riuso” (di apparecchiature elettriche ed elettroniche), “riciclo” (di rifiuti hi-tech), “riappropriazione”… di futuro.
Un esempio isolato? Non proprio e, per accorgersene, basta trasferire la scena nella provincia di Latina, senza nemmeno spostarsi nel tempo, dato che l’epoca è la stessa della vicenda di Milano. In uno scenario molto più desolante dal punto di vista dell’abbandono industriale, qui, infatti, la Evotape era un attore significativo del settore gomma-plastica, legato alla produzione di nastri adesivi isolanti. Lo stesso comparto in cui operava, prima della chiusura, anche la Maflow, tanto che il nome dei proprietari era lo stesso, Manuli, famiglia di industriali attiva in quel settore fin dagli anni Trenta.
Tutto questo naturalmente prima di diventare una multinazionale, con gli interessi e gli abitudini di una multinazionale. Caratteristiche che si fanno sentire, allorché, alla morte del fondatore dell’azienda, viene presa la decisione di cedere lo stabilimento di Castelforte all’americana Tyco. Ma è quando quest’ultima, nel 2002, viene affossata da una serie di scandali connessi alla sottrazione di fondi per fini personali da parte dei dirigenti che per la Evotape comincia l’odissea degli stati di crisi e della cassa integrazione.
Nel frattempo la proprietà infatti transita attraverso un fondo lussemburghese per poi finire nelle mani di un’altra multinazionale ancora, questa volta messicana, la Alma Monta. Risultato? Appena sei mesi dopo l’ultimo cambio di mano – siamo ormai nel 2010 – la Evotape chiude i battenti per mancanza di liquidità. Mobilità per i 137 dipendenti dello stabilimento e fine della storia. O meglio, la storia sarebbe potuta finire se non fosse stato per la volontà dei lavoratori di resistere, andando senza stipendio a presidiare la fabbrica per due anni. Finché, con la quota poco più che simbolica di 100 euro a testa, nel marzo 2013, 53 di loro fondano la nuova cooperativa Mancoop e ricominciano a produrre.
Lo striscione che campeggia nella sala delle assemblee dello stabilimento vale da morale per questa come forse per tutte le altre vicende analoghe. Vi si trova impresso a chiare lettere: “I soci lavoratori non chiedono assistenza ma sostegno per creare lavoro”.