di Ermelinda Valentina Di Lascio
La soluzione del problema che vedi nella vita è
un modo di vivere che fa scomparire ciò che è problematico.
L. Wittgenstein, MS 118, 17r-17v (27.8.1937)
Di mestiere faccio la filosofa o, più precisamente, la storica della filosofia antica greca e romana. Come tale, anche quando mi ritrovo in compagnia di amici che non appartengono alla cerchia accademica parlo spesso di filosofia. La reazione della maggior parte di essi tradisce la loro percezione della filosofia come di una disciplina esclusivamente accademica; se ne dicono affascinati e ricordano, con un briciolo di malinconia, i tempi della scuola quando si potevano permettere di dedicare parte del proprio tempo a vane speculazioni metafisiche o ontologiche, ma giudicano la segregazione della filosofia dalla società odierna e la sua esclusiva relegazione all’accademia come giustificata essendo la filosofia priva, a loro avviso, di qualsiasi risvolto pratico attuale.
In tali occasioni, ad un certo punto, vengo invitata a porre fine ai discorsi di stampo filosofico, e si passa a parlare di altro, di temi cari a tutti i presenti. Parliamo, tra altre cose, della nostre frustrazioni, insoddisfazioni, conflitti interiori, di traguardi di vita che vorremmo raggiungere o che ci rammarichiamo di non aver raggiunto. Parliamo di arte, di religione, di politica. Abbiamo spesso opinioni divergenti e l’esito della conversazione lascia ognuno della propria idea, ma capita anche che ci sia chi si dica persuaso dell’idea di qualcun altro.
Ebbene, ciò che i miei amici ignorano è che su tutti gli argomenti oggetto delle nostre chiacchierate i filosofi antichi hanno riflettuto, avanzato risposte; difatti ciò di cui non si accorgono è che non siamo passati a parlare di ‘altro’, che io–pur non chiamando in causa nomi celebri–non ho smesso di parlare di filosofia e che loro stessi si sono cimentati in una sorta di esercizio filosofico.
Difatti la nostra chiacchierata presenta momenti simili alle fasi tipiche di una discussione filosofica, almeno come concepita da larga parte dei filosofi antichi.
- 1. Io e i miei amici abbiamo riconosciuto, indirettamente, di non possedere conoscenza degli argomenti oggetto di discussione: lo stesso interrogarsi su qualcosa presuppone una (inconscia) presa di coscienza della propria ignoranza sulla questione.
- 2. Non abbiamo trovato subito risposta alle nostre domande.
- 3. Siamo quindi caduti in quello stato che i filosofi greci chiamano ‘aporia’, che alla lettera è l’assenza di risorse (poros siginifica ‘risorsa’, a significa ‘assenza di’): ci siamo trovati senza risorse nell’individuare una risposta soddisfacente alle nostre domande; questo ci ha spinto a continuare nella nostra indagine, almeno per un po’.
- 4. Cercando risposte alle questioni di nostro interesse abbiamo provato–rendendocene conto o meno–un’emozione che, sempre secondo i filosofi greci, si accompagna allo stato dell’aporia, cioè la meraviglia: le questioni di cui abbiamo discusso ci hanno meravigliato per la loro non immediata comprensibilità e quindi spinto all’indagine.
- 5. Abbiamo discusso in una delle maniere più efficaci di fare filosofia, quella dialettica, cioè in comunione con altre persone (il termine ‘dialettica’ viene dal verbo greco dialeghesthai, ‘dialogare’).
- 6. La discussione in gruppo ci ha svelato l’inadeguatezza di certe nostre idee: le obiezioni di alcuni dei presenti hanno talvolta permesso ad altri di vedere la debolezza di idee che credevano vere, permettendo di vagliare opinioni diverse che in una ricerca solitaria ci sarebbero facilmente sfuggite.
Per esempio, quando abbiamo parlato del desiderio di essere felici, delle decisioni e azioni che intraprendiamo a tale fine, e del purtroppo frequente fallimento nel raggiungere tale stato, la discussione comune ha permesso di chiederci se la nostra idea di cosa sia la felicità sia corretta o comunque l’unica possibile. Di solito si pensa alla felicità come ad uno stato d’animo piacevole, gioioso, eccitante che si ottiene quando abbiamo realizzato tutti i nostri desideri–che di solito riguardano il raggiungimento di un certo status sociale, economico, personale.
E se–uno di noi ha chiesto–fosse possibile concepire la felicità non come uno stato mentale? Questo mi ha indotto a sottoporre all’attenzione degli altri l’idea aristotelica di felicità come modo di vivere, come l’attività di agire virtuosamente (da coraggiosi, temperanti, etc.) Quando poi uno di noi ha espresso amarezza e rabbia per un’ingiustizia subita sul lavoro, una promozione lavorativa data a chi la meritava meno di lui, abbiamo tentato di immaginare un modo per non subire quella sensazione di frustrazione.
Di nuovo la riflessione comune mi ha indotto a proporre l’idea socratica che è meglio ricevere ingiustizia piuttosto che commetterla e che chi commette un’ingiustizia fa in realtà del male a sé stesso perché corrompe la propria anima alimentandone la parte peggiore, quella che si nutre di desideri come quello del potere. Questo ha portato ad immaginare con quanta serenità saremmo in grado di accettare quella promozione mancata, quanto saremmo grati di non trovarci nella posizione di chi ha ricevuto una promozione non meritata e soprattutto l’ha sottratta a qualcun altro più meritevole di lui!
Quando si è parlato dell’ultima mostra visitata, c’è stato chi ha sottolineato che, se pur piacevoli da osservare, le opere esposte potevano veicolare idee false sulle realtà che rappresentavano. Chi ha detto ciò non sa che Platone per primo ha criticato grandi poeti greci, persino Omero, proprio perché il loro lavoro era fuorviante: la loro poesia è bellissima, cioè fonte di piacere in quanto capace di suscitare forti emozioni, ma contiene numerose falsità su fatti e attività umane, e per questo rischia di essere fuorviante: il grande piacere che essa suscita può renderci incapaci di vedere le falsità insite in essa (e quindi anche indurci a giudicare sapiente chi ha prodotto la poesia).
Ma perché io e i miei amici, che nulla o quasi sanno di filosofia antica, abbiamo discusso in un modo spiccatamente filosofico? Perché–suggerisco–tale pseudo esercizio filosofico è inevitabile per noi esseri umani. La ragione della sua inevitabilità si ritrova in quanto Aristotele scrive in apertura della Metafisica: ‘tutti gli uomini per natura desiderano conoscere’. Cioè–mi azzardo a tradurre–tutti gli uomini possiedono l’attitudine a e il desiderio di fare filosofia (dal greco philosophia; il termine nasce in Grecia nel V secolo a.C.): il ‘filosofo’ (philosophos) è colui che ‘ama’, ‘aspira a’ (philos) la ‘conoscenza’, il ‘sapere’ (sophia). Quando io e i miei amici discutiamo soddisfaciamo quindi un bisogno tipicamente umano, anche perché l’uomo è l’unico animale che possiede il logos, cioè la facoltà della ragione che vede la sua massima applicazione nella ricerca della conoscenza.
Il problema è che quando io dialogo con i miei amici in realtà facciamo filosofia in maniera approssimativa, almeno per due motivi. In primo luogo, ignoriamo il metodo di indagine filosofica e quindi non lo pratichiamo correttamente né in maniera consapevole: questo ci rende incapaci di beneficiare delle conseguenze della ricerca filosofica, cioè di prendere atto delle conclusioni alle quali si arriva ed adattare ad esse la conoscenza di sé, il proprio modo di vedere le cose e di vivere. In secondo luogo, ignoriamo il pensiero di coloro che hanno dedicato la loro vita a riflettere su temi così cari a noi e soprattutto di quelli che lo hanno fatto per primi nella tradizione del pensiero occidentale–i filosofi antichi.
Le ragioni di questa duplice ignoranza sono complesse, ma non posso non sospettare che parte della responsabilità sia proprio di noi accademici: siamo forse i primi a concepire la filosofia come una disciplina esclusivamente accademica e di fatto a relegarla a tale ambito. Ciò su cui accademici e non si sbagliano–io credo–è che la filosofia debba essere relegata all’accademia. Lo scopo di questa rubrica che ospiterà una serie di pezzi su temi di filosofia antica è proprio quello di muovere alcuni passi in direzione di un gesto doveroso: sopperire ai due tipi di ignoranza menzionati, illustrando temi e posizioni della filosofia antica e il metodo filosofico ad essi soggiacente.
Restituire agli uomini la loro eredità culturale, cominciando a colmare il divario tra accademia e resto della società, mostrando che esso deve e merita di essere colmato, non solo perché siamo potenziali filosofi per natura ma anche perché esercitare tale facoltà è, contrariamente al sentire comune, un ausilio preziosissimo per poter vagliare riflessioni e soluzioni alle inquietudini personali e ai problemi sociali dell’epoca complessa nella quale viviamo.
In altre parole, facendo riferimento alla frase citata in epigrafe, come dice Ludwig Wittgenstein–famoso filosofo austriaco-britannico del ventesimo secolo–la soluzione al problema della vita è un modo di vivere che porta alla dissoluzione del problema stesso. E–aggiungo io, sulla base di quanto detto–quel modo di vivere dovrebbe e non può che essere un modo che fa costante ricorso alla facoltà tipicamente umana di ragionare e fare filosofia: solo così si può davvero essere sé stessi e quindi svolgere il proprio ruolo all’interno della società, in libera riflessione e completa onestà intellettuale e morale prima di tutto con sé stessi e poi con gli altri.