Cronaca di una morte annunciata: a Firenze un rifugiato somalo si suicida e il Paese guarda altrove

2 Luglio 2013 /

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di Francesca Materozzi
L’uomo che giovedì scorso ha deciso di porre fine alla propria vita, lanciandosi dal terzo piano di una palazzina occupata, si chiamava Mohamud Mohamed Guled, aveva 31 anni ed era somalo. Verso le quattro del pomeriggio si è sentito un tonfo provenire dal cortile interno. Le persone che erano lì sono andati a vedere e l’hanno trovato riverso a terra, in un lago di sangue. È stato chiamato il 118 ma ormai non c’era niente da fare.
Subito comincia il via vai di polizia, medici e giornalisti. Arriva il rappresentante della comunità somala, per dare sostegno. Gli abitanti della struttura sono tesi, alcuni si sentono male. Sono anni che queste persone, uomini e donne, lottano per la sopravvivenza e il corpo di Mohamud riverso per terra, senza vita, rappresenta per tutti una sconfitta. C’è chi si lascia andare alla rabbia e all’amarezza. Molti dicono che vorrebbero andarsene in altri paesi europei, «perché l’Italia è ancora Africa».
Il regolamento di Dublino li obbliga a restare qui. La tensione tocca il suo apice quando la polizia cerca di allontanare i giornalisti. Gli occupanti non vogliono. Gli italiani devono sapere cosa succede, quanto la gente sta male. Perché scacciare i giornalisti? Perché non far emergere questa situazione? In Italia di asilo politico si muore e si deve sapere. Mohamud si è ucciso perché non ce la faceva più, stremato dall’incertezza, dalla solitudine e dalla mancanza di prospettive. Verso le otto di sera il corpo viene rimosso, l’ambulanza va via.

Rimangono gli occupanti e i volontari di alcune associazioni impegnate nella palazzina. Dopo circa un’ora arrivano altre persone. Attivisti, militanti dei movimenti, delle reti antirazziste. In verità poche persone: gli italiani saranno massimo qualche decina. Arriva Don Santoro e la Comunità delle Piagge. Portano candele che saranno disposte dove è caduto il corpo di Mohamud. Le tracce di sangue, coperte dalla sabbia, sono ancora visibili. Inizia la commemorazione funebre con gli italiani, quella religiosa somala c’è già stata. Interviene una parente di Mohamud. «Nella città dell’Umanesimo e del Rinascimento tutto quello che vi chiediamo è solo un po’ di umanità», dice. E poi continua il suo discorso ricordando chi era il cugino. Altri ancora parlano e ricordano il ragazzo, esprimendo la propria amarezza. Altri semplicemente piangono.
La parente si chiama Numa ed è arrivata nel 2004 da Mogadiscio, con una valigia piena ma solo di sogni e speranze. Voleva fare il medico. Non è mai stata all’interno di progetti d’accoglienza, e se l’è cavata da sola con l’aiuto di qualche italiana di buon cuore. Racconta le sue traversie, i soprusi subiti, le ingiustizie. Come quando la Questura ha deciso arbitrariamente di cambiare il suo permesso da umanitario (all’epoca sinonimo di protezione sussidiaria) a lavoro subordinato. Privandola così della protezione che dovrebbe essere implicita in questo permesso. «È stata dura ma ce l’ho fatta», dice con un misto di orgoglio e imbarazzo. E poi, come per giustificarsi: «Sai, le donne sono più forti degli uomini». Ora vive a Campi Bisenzio dove lavora come badante di Primetta, una signora ultranovantenne, studia e fa volontariato. Di suo cugino sembra conoscere meglio lo stato d’animo che non i fatti che lo hanno portato al suicidio. Dice che stava male e che non capiva cosa gli succedeva intorno. Voleva tornare a casa. Guled (i parenti lo chiamavano così, col nome del nonno) si domandava sempre che cosa avesse fatto di male, perché ce l’avessero con lui. Veniva da una famiglia benestante, aveva fatto le scuole inglesi, finito le superiori. Lavorava in Africa, però come molti altri suoi coetanei era sicuro che in Europa sarebbe stato tutto migliore. Comunque meglio che in Somalia, da oltre 20 anni in guerra. Così è venuto in Italia e ha trovato l’inferno. Voleva tornare a casa, ma i documenti, sempre promessi e mai arrivati, hanno giocato un ruolo determinante.
Il percorso di Mohamud la raccontano a spizzichi e bocconi anche i ragazzi che incontro in via Slataper. Appena arrivato in Italia, durante l’Emergenza Nord Africa, è stato mandato a Pisa dove è stato preso in carico dalla Croce Rossa. Sembra che già lì avesse cominciato a stare male iniziando un percorso di sostegno psicologico e farmacologico. Poi, finalmente, la Commissione e la protezione sussidiaria riconosciuta all’ultimo momento a febbraio. Ma con il cedolino che viene rilasciato in questi casi e che precede il documento reale, non si può lavorare o prendere in affitto una casa. Solo pochi, più informati degli altri, sanno che passati due mesi questo sarà possibile. Per la stragrande maggioranza della gente quella ricevuta equivale ad avere niente in mano, e a tempo indeterminato. Questo era anche quello che sembra avesse capito Guled. Allo scadere dell’Emergenza Nord Africa, in ogni caso, Mohamud/Guled non era più un richiedente asilo e chi lo aveva preso in carico non lo ha ritenuto un soggetto fragile, da tutelare, come previsto nella circolare del Ministero degli Interni del 18 febbraio. È stato mandato via dall’accoglienza, con 500 euro in tasca.
Arrivato a Firenze è andato a vivere nello stabile occupato di via Slataper, incapace di parlare italiano, malgrado fosse in Toscana da quasi due anni, con nessuna conoscenza del territorio fiorentino. Invisibile ai servizi sociali perché in quello stabile il Comune si rifiuta di dare la residenza, almeno fino ad oggi. Accanto a sé solo i connazionali che, trovandosi in condizioni molto simili, più di tanto non possono fare, e i volontari, che hanno tanta buona volontà e pochissimi mezzi. Qualcuno racconta anche di un incontro sfortunato. Sembra che un controllore dell’Atac, la società che gestisce i mezzi pubblici, gli avesse sequestrato il permesso. Questo lo racconta anche un ragazzo somalo di Pisa intervistato da l’altracittà. Per cui sembra che Guled non avesse più il documento e si racconta che stesse cercando qualcuno che lo aiutasse a recuperare il permesso. Molti hanno avuto problemi di questo tipo. Per cercare lavoro bisogna muoversi sul territorio. L’unico mezzo di trasporto utilizzabile è l’autobus, e alle volte ci si sale su senza biglietto perché i soldi per comprare il biglietto non ci sono. Di certo, addosso, quando si è lanciato aveva solo il codice fiscale. Di certo viveva con l’ossessione dei documenti. C’è anche chi dice che Guled negli ultimi giorni faceva discorsi sconnessi. Non ce la faceva più.
Venerdì, la sera successiva, viene indetta un’assemblea pubblica. Ci sono gli occupanti, il movimento Lotta per la casa, alcune associazioni tra cui Medu, persone dei movimenti e dei centri sociali. Ci sono anche i rappresentanti della cooperativa Cat che stanno iniziando, proprio in quello stabile, un progetto di inserimento sociale e lavorativo in collaborazione con gli occupanti, la Regione, altre istituzioni e associazioni. Gli italiani sono una trentina. Non sono visibili rappresentanti istituzionali, politici, religiosi, di chi si occupa di accoglienza rifugiati e membri di altre comunità. La città di Firenze non sembra essersi accorta di nulla. Anche i mezzi d’informazione, a cui tanto tenevano i ragazzi, di fatto hanno trattato l’argomento in maniera marginale. Mi mostrano una foto di Guled. Hanno trovato una sua fototessera e l’hanno fatta ingrandire. Vogliono far vedere chi era, vogliono che ci sia un viso da ricordare. Viene deciso dall’assemblea che per martedì verrà fatta una manifestazione partendo alle 9 da via Slataper e un presidio in via Zara dove c’è la Questura.
Tra pochi giorni, il 20 giugno, verrà celebrata in tutta Italia la giornata del Rifugiato. Anche a Firenze molte associazioni, cooperative, politici e amministratori si ritroveranno per fare bei discorsi sul diritto d’asilo e sull’accoglienza. Elias, che da anni abita in via Slataper, non sa neanche che esiste la giornata del rifugiato.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione il 17 giugno 2013

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