di Valeria Piasentà
Giovani in lotta per i diritti civili e la democrazia repubblicana. Ecco chi sono i ‘ribelli’ di piazza Taksim: un sondaggio su 3000 occupanti di Gezi Park, condotto dall’Istanbul Bilgi University, ci informa che il 54% dei manifestanti hanno fra 19 e 30 anni, la maggioranza non aveva mai partecipato a proteste; il 82% si dichiara ‘liberalÈ, il 70% senza appartenenza politica, il 37% non si sente rappresentato quindi auspica la formazione di un nuovo partito politico; l’8% ha votato l’Akp (il partito conservatore islamico del primo ministro) e il 9% si augura un colpo di stato. Il 92% protesta contro «il disprezzo del primo ministro e la violenza della repressione» a manifestazioni di pacifico dissenso.
Infatti, oltre il 90% degli slogan scritti e declamati sono contro Erdogan in prima persona, moltissimi ne chiedono le dimissioni. Le parole d’ordine dei manifestanti sono «Her yer Taksim. Her yer direniş!» (Ogni luogo è Taksim. La resistenza è in ogni luogo!) e «Tayyp istifa!» (Recep Tayyip Erdogan dimettiti!). Hanno successo anche la richiesta di dimissioni del capo della polizia e del governo, definiti ‘fascisti’. In piazza ci sono pure i mussulmani anticapitalisti, che il 6 giugno hanno pregato pubblicamente.
Ci sono tante donne, i partiti di sinistra e dei curdi ma anche persone di destra, i sindacati e le associazioni, le università e gli studenti medi, addirittura i tifosi delle squadre di calcio che per l’occasione hanno trovato un’inedita unità. Intellettuali, artisti, attori del teatro nazionale sfilano e partecipano agli scioperi; come i commercianti che nascondono nei loro negozi i ragazzi rincorsi dai poliziotti; i venditori ambulanti di cozze che lanciano limoni ai giovani colpiti dal lacrimogeni; i lavoratori degli alberghi e dei ristoranti che hanno esposto in vetrina cartelli con le pass del loro wi-fi. È una vera rivolta popolare che sale dal basso, appoggiata da larghissimi strati della società di Istanbul e trainata dai giovani. Non è definibile con i soliti standard.
Quindi mi dispiace ma anche il nostro ministro Bonino, peraltro encomiabile nella sua protesta, non ha capito che i vari occupy americani ed europei qui non c’entrano nulla. La rivolta non è generazionale né contro la finanza internazionale (non c’è crisi economica in Turchia), né esclusivamente ambientalista, anche se la difesa del territorio e dell’ambiente ostile alla speculazione edilizia è sentita come una priorità, esattamente come da noi. La prima repressione della polizia, contro i verdi e gli artisti abitanti del quartiere e difensori di Gezi Park, ha acceso la miccia di un malessere sociale che cova da anni, ha funzionato da pretesto politico come la storia ci insegna. Mi spiace constatare come in Italia spesso non si comprenda lo spirito della rivolta.
Chi per diffidenza: pensando a oscure ingerenze di poteri autoritari come quello militare; chi per tornaconto politico: è difficile opporsi a un personaggio per tanti motivi importante, specie se la Turchia con il suo pil in crescita entrerà nella Ue; chi a causa di una informazione non puntuale delle motivazioni quanto lo è nella narrazione degli eventi: si continua a non capire, o non voler capire, il senso della protesta di Istanbul. Ci sono echi del ’68 parigino, specie nella forma delle manifestazioni e nell’età dei partecipanti. Emblematica la scritta in francese (le altre sono in turco o in inglese: guardate le foto, lo striscione si può scaricare e stampare) che un anonimo ha lasciato sul portone dell’Istituto di cultura francese: La poesia nella strada.
Ma c’è anche un recupero di storia e simboli locali e internazionali. Lo dimostrano l’adozione della nostra Bella ciao (ho sentito anche il Va’ pensiero e canti cileni degli anni ’70), delle magliette col ritratto del Che e degli enormi manifesti con il volto del ‘Che turco’: Ibrahim Kaypakkaya, morto giovanissimo nel ’73 per le torture subite in carcere. E c’è l’orgoglio delle donne. Molte ragazze sfilano con gonne corte, fra i capelli la tradizionale coroncina di fiori gitana (l’unico banchetto che non vende caschetti gialli, mascherine e bandiere, ha una cascata multicolore di coroncine); mentre solo due anni fa, una circolare ‘consigliava’ i presidi di facoltà d’imporre il velo islamico alle studentesse.
Le donne che cantando in coro Bella ciao hanno sceso la Istiklal, arrivate in piazza hanno esposto il loro striscione viola con scritte contro la repressione maschilista, firmato Collettivo femminile socialista. In rete è possibile ascoltare il racconto di una giovane studentessa di Storia dell’arte, che dall’ospedale racconta pestaggio e molestie sessuali subite da decine di poliziotti, la notte dello sgombro, mentre le gridavano «Sei una puttana di Atatürk. Puzzi come una puttana di Atatürk». A oggi, Amnesty International computa in 7500 i feriti negli attacchi della polizia, dei quali 200 gravi e almeno 4 morti. Contro questa Turchia – Paese che tuttavia e in maggioranza ha votato per Erdogan, specie dalle campagne – manifestano i giovani di Istanbul e delle altre città.
Si dichiarano partigiani di una lotta di liberazione nazionale e non hanno paura: i ‘ribelli’ di Taksim sono giovani indignati di un ‘partito urbano’, moderno e liberale, che pretende più democrazia e diritti civili. Erdogan risponde con la violenza inaudita della polizia e col suo disprezzo: si ripresenterà alle elezioni dopo aver riformato lo Stato in una repubblica presidenziale (questa l’abbiamo già sentita, vero?) per governare senza contradditorio. Il grande amico di Putin e di Berlusconi, coi quali fra l’altro ha condiviso l’affare del gasdotto South Stream, negli ultimi anni ha richiamato imponenti investimenti dagli Emirati arabi, facendo della Turchia, e di Istanbul in particolare, un grande cantiere a cielo aperto tanto che non è da escludere una bolla immobiliare da qui a qualche anno.
Oltre a interessi politici pare ne abbia anche economici (Corriere della Sera, 12 giugno); si vocifera poi di partecipazioni societarie in un hotel di lusso di fronte al suo nuovo quartiere generale che comporterà, per motivi di sicurezza, la chiusura di un molo dei frequentati traghetti. Il piano è far diventare la metropoli capitale di una nascente unione turco-araba, qualora l’Ue continui a negarle l’accesso per l’opposizione dei partiti europei di destra e xenofobi, per l’Italia della Lega. Invece l’ingresso della Turchia sortirebbe effetti positivi sull’economia della vecchia Europa, come sostiene Obama, ma anche sulla difesa dei diritti civili in Turchia, qualora i nostri governanti imponessero a quel governo, come prerequisito, l’adesione incondizionata alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Intanto facciamo nostra l’esortazione di Amnesty di «far appello alle autorità (nel nostro caso italiane) affinché si ponga fine all’abuso della forza».
Questo articolo è stato pubblicato sul sito del Manifesto sardo