“Ilva connection”, Manni Editori, è il titolo del libro reportage che racconta il sistema di potere costruito da Riva, diventato padrone della siderurgia italiana grazie alla magnanimità dello Stato. Il modello Riva, un impasto di autoritarismo, paternalismo e corruzione, si è avvalso della complicità di tanta parte della politica, anche di centrosinistra, delle istituzioni, della Curia di Taranto, dell’informazione e degli stessi sindacati, dalla cui azione subalterna alla proprietà e ostile alla magistratura si è dissociata la Fiom.
I protagonisti del racconto sono gli operai, i magistrati, gli ambientalisti, gli scenziati e i tecnici, i sindacalisti, i pastori e i coltivatori di cozze del Mar Piccolo, le vittime e i partenti delle vittime di un’associazione per delinquere che ha trasformato la città dei due mari in uno degli insediamenti civili e industriali più avvelenati d’Italia. Incalzato dalla cronaca, ho provato a spiegare quel che finalmente, dopo le ultime mosse della magistratura e i maxi-sequestri dei capitali sfilati dall’Ilva da Emilio Riva ed esportati in accoglienti paradisi fiscali, non fa più scandalo: l’unico modo per salvare il lavoro di decine di migliaia di dipendenti, la salute dei tarantini e la siderurgia italiana è liberarsi dal bubbone Riva, utilizzando i capitali accumulati sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini per bonificare il territorio intossicato da diossine, fumi e ogni tipo di inquinanti e per ristrutturare lo stabilimento tarantino, nel pieno rispetto dei diritti sociali e ambientali. Anticipiamo da “Ilva connection” un dialogo con il Stefano Rodotà.
di Loris Campetti
Stefano Rodotà, giurista e politico di vaglia, non ha bisogno di presentazioni. Una delle sue principali fonti, attraverso cui il professore interpreta e commenta i fenomeni e i processi sociali, è la vecchia, cara Costituzione, “un capitale culturale inutilizzato”. Invece di passare il tempo a mitigarne, o peggio snaturarne, le caratteristiche rivoluzionarie bisognerebbe impegnarsi ad applicarla, facendola finalmente diventare patrimonio collettivo. Pur nel vortice mediatico dei giorni successivi alla sua candidatura a presidente della Repubblica, a cui il Partito democratico non ha voluto dare il suo sostegno preferendo la strada dell’abbraccio con Berlusconi, Rodotà è disponibile a esprimere il suo punto di vista sul conflitto che contrappone insensatamente due diritti fondamentali, al lavoro e alla salute. Ed è un punto di vista netto, di sinistra e, soprattutto, fedele alla Carta costituzionale.
“Ha preso piede una lettura semplificata sui diritti – dice – e con essa una considerazione diffusa secondo cui i diritti costano, non ce li possiamo permettere. Di conseguenza viene fatta una selezione per espellere dall’insieme dei diritti quelli sociali. Certo, i diritti costano, ma a nessuno viene in mente di eliminare il diritto di voto nonostante abbia il suo costo economico. Invece sui diritti sociali si è disposti a soprassedere. A questa logica rispondo proponendone una opposta: i diritti sociali costano, certo, ma il prezzo economico da pagare se non vengono rispettati è ancora maggiore”. E qui il caso dell’Ilva di Taranto diventa illuminante: “Vengono presentati in contrapposizione due diritti fondamentali come il diritto al lavoro e quello alla salute.
Non sono in contrapposizione, piuttosto sono ineliminabili come ci spiega la Costituzione a partire dalle sue prime righe. L’articolo 1 pone addirittura il lavoro a fondamento della Repubblica”. Il lavoro che la Costituzione pone come radice della Repubblica deve inoltre rispettare la dignità di chi lo esegue, dunque la sua sicurezza “che non vuol dire semplicemente indossare il casco”, dignità significa salute, rispetto della vita e dell’ambiente. “Se il diritto al lavoro e alla salute fossero stati presi sul serio, all’Ilva non ci saremmo trovati nell’attuale situazione disastrosa, da un punto di vista sociale e ambientale. Oggi i danni prodotti richiedono costi altissimi, molto più alti che se si fosse operato diversamente – continua Rodotà – cioè nel rispetto della Costituzione. Ecco uno dei motivi per cui il ragionamento sui costi dei diritti sociali va rovesciato. È l’insieme dei diritti, fondamentali nel nostro caso, che va reintegrato”.
L’attacco ai fondamenti della Costituzione passa anche attraverso “il tentativo avviato dal governo Berlusconi e proseguito con il governo Monti di ribaltare l’obiettivo insito nell’articolo 41. L’iniziativa privata, si dice, è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale o recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Pensa che questa scrittura – ci tiene a sottolineare Rodotà – è stata fatta insieme ai liberali nella Costituente. E per sicurezza, lo ripeto, si intende la qualità del lavoro. Questa linea politica costituzionale va riaffermata e praticata”. Quale sia lo scopo di questi ripetuti attacchi all’articolo 41 per modificarlo è evidente: “La forzatura si basa sull’idea che la cosiddetta legge naturale del mercato sia al di sopra della Costituzione. Solo il ripristino della linea politica costituzionale, al contrario, ci consente il rispetto dei diritti e favorisce la possibilità di trovare gli equilibri necessari. C’è una sentenza della Corte europea che ha un valore straordinario perché definisce illegittima l’attività economica che contrasta con la dignità delle persone. Come si fa, di fronte a questo pronunciamento, a non riconoscere l’importanza e la lungimiranza della Costituzione italiana?”
La violazione dello spirito costituzionale viene letta da Stefano Rodotà nelle conseguenze sociali di scelte politiche inique che costringono “un numero crescente di cittadini a rinunciare alle cure, alle analisi, ai farmaci perché non sono in grado di sopportarne il costo. Insomma, c’è chi non può tutelare la propria salute per mancanza di mezzi: così si torna a una cittadinanza censitoria. La seconda considerazione, però, è che quando si determina una situazione di tale ingiustizia invece di risparmiare si è costretti a spendere ancora di più; insomma, intervenire in ritardo e dopo scelte politiche sbagliate aggrava sia i costi sociali, che stanno diventando drammatici, sia i costi economici”. Rodotà ribadisce la natura classista di queste politiche incentrate sulla “legge naturale del mercato” che espelle i diritti sociali dall’insieme dei diritti: “Altro che non ce li possiamo permettere, è la loro violazione che non ci possiamo permettere. Se a determinare le scelte è il mercato e non il mandato costituzionale, automaticamente crescono le ingiustizie”.
L’Ilva, per risparmiare, peggiora le condizioni di lavoro e intossica il territorio determinando una drammatica emergenza sanitaria. E in più, la diossina e i fumi vengono sparati prioritariamente nei quartieri più poveri, vicino ai quali è stata costruita la fabbrica, Tamburi a Taranto come, in passato, Cornigliano a Genova… “È quel che ti stavo dicendo: c’è un’ingiustizia di classe, per cui chi ha i soldi si cura e si costruisce la casa lontano dalle fonti inquinanti. La qualità dei diritti di cui mi posso avvalere è legata alla mia capacità economica. È una logica eticamente e socialmente inaccettabile e anche, insisto, insostenibile sul piano economico”.