di Stefano Galieni
Vuole dichiarare le proprie generalità, dice di non aver niente da perdere e solo la salvezza da conquistare. La storia che racconta Ismail Ahmad Abdlla, nato a Soulemanya in Iraq 38 anni fa, sembra presa da un romanzo, eppure sono tanti i fogli di carta che ne dimostrano l’autenticità. «Sono arrivato per la prima volta in Italia nel 1998 – racconta – vengo da una famiglia di intellettuali e qui stavo bene. Nel 2002 ho scelto di tornare nel mio paese per motivi politici. La mia famiglia era molto legata al partito Baath di Saddam Hussein e io sono rientrato per fare il militare nella guardia repubblicana, i suoi fedeli insomma. Dopo l’invasione americana sono stato arrestato e rilasciato. Nel 2004 mi hanno accolto nell’esercito del governo che si andava formando. Avevano bisogno di addestratori militari e io ho accettato anche se ero rimasto fedele a Saddam. A tal punto che ho dato le mie armi ad un gruppo di insorgenti che ha attaccato Takrit, la città natale di Saddam».
Ismail giunge alla parte più dura della propria storia: «Sono intervenuti gli americani – dice con malcelato odio – e hanno trovato una mia arma. Mi hanno subito arrestato e portato ad Abu Ghraib, dove sono rimasto per quattro mesi. Mi hanno fatto di tutto, porto ancora addosso i segni di coltellate e di torture. Ero ridotto così male che mi hanno dovuto portare in ospedale in attesa di processarmi, ma grazie all’aiuto del personale medico, sono riuscito a scappare. Parlo 5 lingue e sono kurdo, so bene che l’esercito di Saddam ha massacrato la mia gente, ma continuo a credere che lui non lo sapesse, che a decidere le stragi fosse suo figlio e altri suoi ufficiali. Ho attraversato il confine con la Turchia e da lì sono arrivato a Bari dove ho chiesto e ottenuto protezione umanitaria. Dovevo fuggire perché già conoscevo il verdetto del processo contro di me. Sarei stato condannato a morte e così è stato, anche se lo hanno fatto in contumacia».
A Bari Ismail racconta di aver trovato facilmente lavoro come interprete presso la commissione territoriale per i rifugiati. Da Bari, svolgendo sempre lo stesso lavoro, si è trasferito prima a Bologna e poi a Gorizia dove ha commesso un errore: «Ho noleggiato un furgone con amici – dice con naturalezza – e ho trasportato 12 immigrati “clandestini”. Mi hanno preso e sono stato condannato a 3 anni e 4 mesi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In carcere sono riuscito a cavarmela e ho lavorato come cuoco, sono anche uscito prima che scadesse la mia pena, ma mi hanno immediatamente trasferito al Cie di Gradisca D’Isonzo, dove sono rimasto dal 6 gennaio al 27 marzo; poi mi hanno portato a Roma, al Cie di Ponte Galeria, dove sono ancora rinchiuso». Ismail non nasconde la propria paura, teme di essere rimpatriato in Iraq in barba alle garanzie costituzionali e ha presentato 3 settimane fa una nuova richiesta di asilo politico accompagnata da una copia in italiano della sentenza che lo condanna alla pena capitale.
«Il mio decreto di espulsione mi dicono che è stato già firmato, ma non riesco a far sentire la mia voce per bloccare quello che potrebbe accadere da un momento all’altro – dice – Da Gradisca mi hanno portato a Roma perché da qui è più immediato il rimpatrio e non so cosa fare né chi mi potrà aiutare. Da quando sono nei Cie ho perso 8 chili e ogni giorno temo che possa esser l’ultimo. Nel mio paese ora comandano gli sciiti e non riceverei pietà non solo perché stavo nell’esercito, ma per la mia origine. Non sono più libero dal gennaio 2010 e non ho fatto nulla di male in Italia. Il mio errore l’ho pagato ma non ho venduto droga né rubato, non ho fatto del male a nessuno». Secondo Ismail la ragione di tale assurda procedura è legata ad un errore burocratico commesso a suo tempo nel cara di Foggia (Borgo Mezzanone) dove ha ottenuto protezione umanitaria. Mentre Ismail si ricostruiva una vita, girando per l’Italia, i suoi documenti restavano fermi in Puglia e poi scadevano fino a non poter essere più rinnovati. E quando si recava nelle questure delle città in cui si fermava, riceveva sempre la stessa risposta, «torna fra 15 giorni, torna fra un mese». «Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti e che faccia soltanto rispettare i miei diritti – ripete – Non ha senso che io resti in questi Cie, non voglio impazzire o scatenarmi come vedo che accade ad altri. La vita a Gradisca era un incubo, qui è meno dura ma ci sono sempre le sbarre e c’è sempre più forte il timore di essere caricato a forza su un aereo che potrebbe condurmi verso l’ultimo viaggio».
Questa conversazione è il frutto di una lunga telefonata intercorsa fra chi scrive e Ismail. Durante la visita che l’Associazione “A Buon Diritto” ha svolto nel Cie di Ponte Galeria, il trattenuto ha avuto modo di parlare con la responsabile della prefettura per il centro e con il responsabile dell’ufficio immigrazione di Roma che, a quanto ci riferisce Ismail, hanno garantito di voler verificare il suo status giuridico ed eventualmente di trasmettere le conclusioni a chi di dovere. Sarà una storia a lieto fine?
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione lo scorso 28 aprile