Giustizia: l'uso oppressivo delle parole e il Dio delle piccole cose

16 Maggio 2013 /

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di Sandro Padula
La giornata nazionale di studi Il male che si nasconde dentro di noi di domani, 17 maggio 2013, promossa da Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova, punta ad affrontare tre tematiche: la violenza sulle donne, la vendetta legata al “codice del disonore” e la violenza delle parole.
Quest’ultimo argomento, cioè – come cercherò di precisare – il tema che secondo me riguarda soprattutto l’uso oppressivo delle parole, è quello su cui spesso mi capita di riflettere e rispetto al quale, come contributo al dibattito, oggi preferisco intervenire. Fatta questa premessa, entro subito nel cuore del problema. Per evitare discorsi metafisici, parto da un dato di fatto: le semplici o composte parole significanti nascono per esprimere determinati concetti ma non sempre sono intese in modo univoco. Da un lato hanno per lo più dei significati variabili in base a come, dove, quando e a chi le trasmettiamo e dall’altro sono suscettibili di essere interpretate male o diversamente dall’Altro da sé per i più svariati motivi culturali, psicologici e morali.
Se benedico l’Ergastolo, inesistente nei paesi più civili, le mie parole fanno male non solo alle persone condannate al dolore del “fine pena mai” ma pure alla memoria di quei politici del nostro paese, come Umberto Terracini al tempo della Costituente, che lo hanno considerato crudele e disumano. Se invece male-dico l’Ergastolo, come hanno fatto i firmatari di un appello abrogazionista lanciato nel novembre 2012 dallo scienziato Umberto Veronesi, non faccio male a nessuno perché mi limito a criticare l’ignoranza di chi non ha capito bene il significato dell’articolo 27 della Costituzione e soprattutto dell’ancora non completa realizzazione del suo terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Tutto è relativo nella società. Anche per quanto riguarda il parlar bene o male. In certi casi, stante la contraddittorietà della vita quotidiana e collettiva, il bene-dire è un parlar male e il male-dire un parlar bene. Tranne rare eccezioni, non esistono parole in sé buone o cattive, pacifiche o violente. Discutere perciò della “violenza delle parole” ha senso soprattutto se ci riferiamo all’uso oppressivo dei segni del linguaggio verbale. Che cos’è, più precisamente, questo tipo di violenza? Senza la sciocca pretesa di essere esaustivi, a tale domanda possiamo rispondere solo attraverso una serie di approssimazioni ed astrazioni necessarie a individuarne le caratteristiche e le forme principali. L’uso oppressivo delle parole, ben più diffuso di quello masochista rivolto contro se stessi, è l’assenza di rispetto verso l’altrui dignità nell’ambito della comunicazione verbale ed uno specifico termometro rispetto al grado di schizofrenia esistente nei rapporti sociali.
Si basa sulle ignoranze dei propri limiti, sui pregiudizi e su quelle ipertrofie dell’Io che portano a produrre con sicumera giudizi imprecisi, esagerati o addirittura falsi sui dati di fatto riguardanti singole persone o specifiche aree della società. Nella sua forma più esplicita e volontaria esprime una concezione manichea della realtà del nostro multiforme essere sociale e, senza necessariamente passare alla violenza fisica, si manifesta come una coazione a ripetere l’idea della presunta validità del rito del capro espiatorio. Nella sua forma implicita e involontaria è invece uno dei prodotti di quei sistemi educativi, formativi e rieducativi poveri di rinnovati e oggettivi criteri di ascolto e valutazione. In ogni caso il modo oppressivo di usare le parole assume connotati allarmanti laddove risultano deboli le mentalità libertarie, i poteri-qualità di ognuno, gli automatismi nei diritti e le difese dei beni comuni.
Lo stesso linguaggio verbale è un bene comune che s’impoverisce allorché, mentre non è adeguatamente socializzato nei suoi migliori aspetti cognitivi e relazionali, entra in scena l’utilizzo oppressivo delle parole. In certe occasioni, d’altra parte, si manifestano delle difficoltà oggettive nella ricerca delle parole più idonee da usare comunicando con le altre persone. Per me, in determinate circostanze, il silenzio diventa il solo mezzo per evitare la nascita o l’approfondimento delle incomprensioni. Il silenzio come pensiero del non voler fare del male a questa o quella persona. Il silenzio come autoriflessione e stimolo all’altrui presa di coscienza di una situazione imbarazzante o di un banale equivoco. Il silenzio come specifica comunicazione non verbale del non voler mettere in croce o ferire nessuno. Altre volte il mio silenzio viene frainteso e allora sento il bisogno di usare parole che siano sue sorelle, predisposte all’ascolto e alla ricerca di un eventuale spirito libertario fra soggettività diverse. Parole in punta di piedi, leggère come le nuvole trasparenti dei pensieri di un rinnovato senso dell’essere sociale, coraggiose come le autocritiche sincere.
Per questo motivo, il 26 agosto 2006 partecipai direttamente al congresso di Ocre (Aq) sul contraddittorio rapporto fra il rispetto della dignità di ognuno e il sistema penale, un convegno organizzato da Quirino Salomone, il responsabile del Centro Celestiniano per cui dal 1998 al 2000, in modo gratuito, avevo realizzato e presentato dei cd-rom multimediali. Lì ero l’unico che stava scontando una pena detentiva e tutti lo sapevano. Mi sentivo un po’ in imbarazzo, come una specie di extraterrestre fra numerose personalità delle istituzioni giudiziarie e del Ministero della Giustizia. Ero emozionato. Avevo perso l’abitudine a stare in mezzo a tante persone. Cominciai a parlare in modo veloce. Rischiavo di trovarmi di fronte all’invisibile muro del pregiudizio. Invece la realtà fu diversa dalle previsioni pessimiste e pure da quelle dettate dall’ottimismo. Dopo il mio intervento, mentre la bocca era diventata secca, sentii un caloroso applauso e soprattutto una vera e propria liberazione da un potenziale incubo. Ma le sorprese non erano finite. Poco dopo un congressista, quasi a voler dimostrare l’esistenza del Dio delle piccole cose, mi regalò un capolavoro dell’uso anti-oppressivo delle parole: il saggio di René Girard “Il capro espiatorio”.
Da quel giorno, grazie ai suoi esiti positivi, si sviluppò in me il desiderio di partecipare ad altri dibattiti pubblici che fossero altrettanto compatibili con la ricerca di un significativo livello di riflessione anche fra soggetti con esperienze e memorie assai diverse.
Per questo motivo, in preparazione del convegno “Spezzare le catene del male” svoltosi il 21 maggio 2010 nella Casa di Reclusione di Padova, scrissi una lettera pubblica destinata a quei partecipanti al dibattito che, al tempo stesso, erano e sono familiari di una parte delle vittime del conflitto sociale e politico degli anni 70. In alcune frasi di quella comunicazione cercai di far capire il dispiacere di chi, condannato all’ergastolo come me, più di trenta anni fa ha provocato la sofferenza ad altre persone. In seguito parlai del fatto che il perdono, oltre a riguardare leggi non scritte, “non va preteso e, nei casi in cui viene concesso, non deve neppure essere usato come una merce da sbandierare ai quattro venti da chi lo riceve”.
Da quanto poi lessi sul sito Internet di Ristretti Orizzonti e ascoltai dalle registrazioni audio, mi accorsi con meraviglia che le mie riflessioni e quelle di Silvia Giralucci, Giorgio Bazzega, Agnese Moro e Sabina Rossa avevano molti elementi comuni. In particolare mi colpirono le seguenti parole di Agnese Moro: “Io penso sia difficile avere d’amblè un sentimento legato al perdono ma penso che sia una decisione. Una mattina ti svegli e, dopo un percorso che in realtà è durato anni, dici basta. (…). Però non credo sia sufficiente. Penso che sia una condizione necessaria ma non sufficiente. Perché credo che se questo è il primo passo bisogna che ci sia una rispondenza. Anche non diretta, voglio dire, ma una rispondenza di spirito”.
Il convegno “Spezzare le catene del male” del 2010 mi fece capire meglio che la rispondenza di spirito fra i miei pensieri esternati e le parole di molti familiari delle vittime, fra cui una persona eccezionale là non presente ma da me conosciuta fin dall’anno prima, era nata non solo dalla comune volontà di confronto e riflessione ma anche grazie ad un modo anti-oppressivo di usare i segni del linguaggio verbale.
Esattamente quel modo insegnato e diffuso anche dalle successive Giornate nazionali di studio organizzate da Ristretti Orizzonti. Lo stesso che, a volte, trasforma il buio della diffidenza in arcobaleno della confidenza, la prolungata solitudine involontaria in collettiva socialità, l’assenza di dialogo in dialogo continuo, la voglia di capire in convergente impegno per ridurre i dolori e le pene altrui.
Questo articolo è stato pubblicato su Ristretti Orizzonti il 12 maggio 2013

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