di Aldo Cazzullo
La recente campagna elettorale sarà ricordata anche come quella in cui l’apologia di fascismo divenne consuetudine. Proprio perché non è più considerata un reato, non fa più scandalo, e anzi – purtroppo – fa prendere voti. Su un punto, e solo su quello, l’ex ministro Renato Brunetta ha ragione: Silvio Berlusconi ha detto cose che molti italiani pensano. Voglio sperare che non sia la maggioranza, come ha detto Brunetta; ma il timore ce l’ho. Perché gli italiani si sono autoassolti dalla vergogna del fascismo.
Imputano al nazismo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e dello sterminio degli ebrei. E si raffigurano il Duce come un buon padre di famiglia, un amante focoso, uno statista avveduto che fino al ’38 le aveva azzeccate quasi tutte. Che è poi quel che ha detto Berlusconi, oltretutto nel contesto della Giornata della Memoria. Non, si badi bene, che “il Duce fece anche cose buone”, come da banalizzazione successiva (e ci mancherebbe altro che in vent’anni di potere assoluto il Duce non avesse fatto anche qualcosa di buono); ma che “per tanti altri versi aveva fatto bene”, ad eccezione si capisce della persecuzione degli ebrei.
Il problema – e questo non solo Berlusconi, ma molti altri italiani lo ignorano – è che nel ’38 il Duce aveva già provocato direttamente o indirettamente la morte dei suoi principali oppositori: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, don Minzoni, Giovanni Amendola. Aveva fatto bastonare don Sturzo, un sacerdote, e Piergiorgio Frassati, un santo. Aveva preso il potere nel sangue: solo a Torino, decine di morti, con il segretario della Camera del Lavoro ucciso, il corpo legato a un camion e trascina to per le vie della città. E aveva preparato – a parole – per quasi vent’anni una guerra poi ignominiosamente perduta.
Vada Berlusconi a ripetere i suoi giudizi in Val Maira, in Val Varaita, in Val Gesso, nelle vallate del Piemonte povero dove il fascismo reclutò gli alpini della Cuneense, mandati in Russia a congelare con gli stivali di cartone (come i loro coetanei trentini e giuliani); e dove poi i nazisti invasori si accanirono sulla popolazione civile e sui partigiani, purtroppo affiancati dai loro collaboratori fascisti.
Purtroppo la memoria del regime non è la stessa in tutta Italia. A Roma ad esempio si tende a essere abbastanza indulgenti: bene o male il fascismo ha dato all’Urbe un nuovo assetto urbanistico, un nuovo quartiere come l’Eur, ospedali e stazioni, un hinterland con le borgate, un retroterra con la bonifica delle pianure pontine, una piccola borghesia impiegatizia con l’espansione dell’apparato statale; soprattutto, il fascismo ha inculcato nella testa degli italiani – sia pure in forme rozze e antistoriche, tipo il mito dell’Impero con fasci littori e aquile – l’idea di Roma capitale.
Non a caso i romani hanno eletto sindaco Gianni Alemanno, in gioventù estremista di destra, e tuttora sui muri della capitale l’effigie del Duce compare a ogni angolo, spesso con gli occhi spiritati dei giorni terribili di Salò. Una vergogna, che purtroppo moltissimi romani non considerano tale. Eppure è davvero difficile andare fieri di aver rinchiuso i libici nei campi di concentramento sulla loro terra e mandato i loro capi a morire di tifo alle Tremiti, bombardato gli abissini con l’iprite, attaccato la Francia con i tedeschi già a Parigi, aggredito la Grecia, condotto una politica di occupazione in Jugoslavia da migliaia di morti, affiancato i nazisti nella guerra di sterminio in Russia, mandato buona parte degli ebrei italiani ad Auschwitz, per lasciare infine la patria semidistrutta e contesa da eserciti stranieri.
Alla retorica di un’Italia tutta antifascista si è sostituita una retorica uguale e contraria, per cui tutti gli italiani sarebbero stati fascisti. Non è andata così, e non solo per i 30 mila passati sotto il giogo dei tribunali speciali; se gli antifascisti militanti furono ovviamente una piccola minoranza, almeno fino alla guerra, non per questo può ascriversi al consenso la popolazione rurale, rimasta ai margini della vita pubblica, e tanto meno quella operaia.
L’antifascismo, per me, non è una parola morta ma un valore imprescindibile, come l’aria e l’acqua. Attardarsi nella difesa impossibile del fascismo è un guaio non tanto per la sinistra, quanto per la destra. Infatti l’Italia è l’ultimo Paese al mondo in cui destra è sinonimo di fascismo, anziché di legalità, merito, responsabilità, nazione. Costruire una cultura di destra liberale è un compito importante, più ancora che riconoscere le ragioni dei ragazzi di Salò e anche dei bonificatori dell’Agro Pontino; compresi i 20 mila coloni veneti uccisi dalla malaria, derubricata dal regime ad “arresto cardiaco”.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 3/2013 di Patria, la rivista dell’Anpi.