Ospedale San Raffaele di Milano, la delegata Usb: "Un disastro per i lavoratori"

24 Aprile 2013 /

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di Francesco Piccioni
L’ospedale San Raffaele di Milano si è trasformato in pochi anni da modello di riferimento della “buona sanità” privata – ovviamente cattolica – a luogo di conflitto sociale e sindacale particolarmente aspro. Fondato nel 1969 da don Luigi Maria Verzé, il prelato amicissimo di Berlusconi, ma in rapporto anche con il Sismi, che ne è stato presidente fino al luglio 2011, appena qualche mese prima della sua morte. Disinvolto affarista della salute, fece da precursore in iniziative davvero poco accostabili alle cure mediche; per esempio, aprendo la Galleria delle Botteghe, per la prima volta un centro commerciale veniva a occupare una parte rilevante di un ospedale.
Ciò nonostante, gli affari sono andati progressivamente sempre peggio, con numerose inchieste giudiziarie che nei deceni hanno dovuto mettere il naso sulla gestione “allegra” della fondazione Monte Tabor, tra irregolarità costruttive, veri e propri abusi edilizi e accuse di ricettazione. Fino al fallimento e alla vendita dell’ospedale «a un prezzo irrisorio» al “re delle cliniche” romane, Antonio Angelucci. Il quale, solo pochi mesi dopo, lo rivendette allo Stato, suscitando scandalo e alcune interrogazioni parlamentari.
L’ultimo e attuale proprietario è invece Giuseppe Rotelli, presidente del gruppo ospedaliero San Donato, subentrato nel maggio 2012. Da allora è stato un crescendo di conflitti, con un referendum che ha bocciato a stragrandissima maggioranza un “accordo aziendale” ignobile firmato da alcune Rsu, ma non riconosciuto neanche dai sindacali confederali di appartenenza. Ne parliamo con Daniela Rottoli, delegata Usb, tra i lavoratori che erano saliti sul tetto dell’ospedale, mercoledì scorso, dopo le cariche della polizia contro i dipendenti che occupavano le “accettazioni”.

Qual è la situazione, ora?
C’è stata un’altra grande assemblea e abbiamo occupato di nuovo le accetazioni. Non ci sono stati nuovi scontri con la polizia, che bloccava i pazienti agli ingressi e quindi hanno fermato loro il flusso. Poi si sono accorti che un gruppo di lavoratori era riuscito a entrare da un altro ingresso e quindi hanno rinunciato, facendo largo ai pazienti che volevano entrare, senza altri problemi. Abbiamo tenuto l’assemblea fino alle 12,30 e siamo ancora in attesa di incontrare la maggioranza alla Regione Lombardia. Mercoledì scorso, quando siamo andati sul tetto, avevamo chiesto che la regione si attivasse, ma si erano presentati solo quelli dell’opposizione, i grillini e Ambrosoli. Eravamo scesi soltanto quando la Digos ci aveva comunicato che Mantovani (un amministratore multitasking, contemporaneamente senatore Pdl, vicepresidente alla Regione, assessore alla salute e sindaco del suo paese, ndr) e altri sarebbero venuti per incontrarci. Poi invece si è fatto vivo soltanto il prefetto. La stanno mandando in realtà per le lunghe. Ieri ci hanno chiesto di mandare una mail; e l’abbiamo fatto. Oggi ci hano chiesto un fax che richiedesse ufficialmente un incontro. Fatto anche questo. Vediamo che cosa ne esce.
Quant’è importante il San Raffaele nella sanità lombarda?
Hanno sempre detto che era “il fiore all’occhiello”. Ma non capiamo cosa ne vogliano fare. Rotelli ha rilanciato di 200 milioni sul prezzo, pur di acquistarlo; eppure sapeva che c’era un buco da un miliardo mezzo. Insomma, l’ha fortemente voluto. Anche se c’è da dire che con lo scomporo tra atività core e attività non core la dimensione della voragine dovrebbe essere stata ridotta di molto, da maggio dell’anno scorso ad oggi. Però Rotelli, fin dal discorso con cui ha accompagnato l’acquisto, si è subito posto un obiettivo impossibile: il pareggio di bilancio entro la fine del 2012. Altrimenti avrebbe abbassato i livelli occupazionali. A luglio, infatti, ha comunicato via lettera che avrebbe aperto le procedure per i licenziamenti, poi cominciati a novembre. E nello stesso momento disdiceva anche il contratto esistente, per la parte economica, a partire dal 31 dicembre, in coincidenza con altre scadenze. Insomma, diceva che da fine gennaio avrebbe decurtato gli stipendi, come poi ha effettivamente fatto.
Cosa prevedeva l’accordo bocciato col referendum tra i lavoratori?
Quell’accordo è stato firmato solo da nove delegati dei sindacati confederali, ma le loro stesse organizzazioni non l’hanno firmato. La Cgil perché prevedeva la “deroga” indicata dall’art. 8 della “manovra Sacconi” (agosto 2012, ndr). C’era infatti un cambio di contratto (dal pubblico al privato), con la deroga per la parte economica e l’abolizione di una serie di voci sul salario accessorio. Intendevano così raggiungere un taglio del salario del 9%, ma come alternativa prevedevano 244 licenziamenti. Poi hanno fatto tutte e due le cose: il taglio dei salari e dei livelli occupazionali. In pratica, per un dipendente con 25 anni di anzianità, sono 350 euro al mese in meno. Su 1.700-1.800, non sono davvero pochi.
I primi 40 licenziamenti. Con che criteri sono stati individuati?
Con criteri fasulli, non quelli di legge. Per esempio han messo fuori gente con 33 anni di anzianità. In pratica, volendo individuare dei criteri, hanno diviso i reparti in tre categorie: ad alta, media, bassa specializzazione. L’organico è ovunque ridotto all’osso. Nei laboratori, dove ci può stare un infermiere anche con poca esperienza, mandano via soprattutto i lavoratori più anziani. Nelle “aree critiche”, dove oltre al diploma serve tanta esperienza, mandano via quelli più giovani. In prevalenza mandano via i “generici”, ma quando si assume un infermiere non è che lo si prende già specializzato (cardiologia, chirurgia, eccetera). In generale, però, viene eliminato tutto il personale “scomodo”, a partire da quelli con “ridotta capacità lavorativa”. E si va direttamente in mobilità, perché nella sanità non c’è la cassa integrazione. Ci sono poi complicazioni incredibili. Perché qui fino al 1996 eravamo assunti come “privato” e si versavano contributi all’Inps, poi siamo passati con l’Inpdap quando siamo diventati “pubblici”. Poi di nuovo con l’Inps, dal maggio scorso. Per quelli che vanno fuori ora c’è persino il rischio di non prendere neanche l’indennità di mobilità, perché non hanno maturato un anno di anzianità con la nuova cassa. E, per finire, c’è la certezza di doversi pagare la “riunificazione” delle carriere contributive dopo aver lavorato una vita nello stesso posto. Ma l’Inpdap, al di sotto dei venti anni, non riconosce gli spezzoni di carriera. Un disastro.
Vi è arrivata solidarietà?
Da tutte le parti. Abbiamo raccolto 125.000 firme soltanto tra i pazienti. Che continuano a venire qui anche adesso, nonostante le occupazioni e la lotta. Vogliono che questo ospedale continui a funzionare, ci si trovano bene come prima…
Cosa manca perché una lotta riesca a vincere?
Le spaccature tra i sindacati, fin dalla firma dell’accordo a Roma, hanno creato divisioni anche tra i lavoratori. Per bocciare il referendum ci siamo ritrovati tutti d’accordo, ma sul piano delle organizzazioni non c’è un fronte comune. La Cgil, per esempio, spinge per i “contratti di solidarietà” (riduzione di orario e integrazione di stipendio, pur di mantenere i livelli occupazionali, ndr). Ma se non vedo il bilancio dell’azienda, e quindi non posso sapere con certezza che c’è un “rosso”, uno stato di crisi reale, come faccio a fare una trattativa seria su questo obiettivo? Senza un piano industriale, senza informazioni. Più in generale, guarda a livello politico quel che succede. La Regione Lombardia è in perfetta continuità col passato, nonostante gli scandali e gli arresti. Non siamo ancora capaci di unire i lavoratori e i cittadini. Le responsabilità dei sindacati confederali sono grosse. Fino a prima delle elezioni andavano a braccetto con i partiti di governo, qui – ora – inseguono la lotta. Domani, una volta fatto un governo, cosa faranno?

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