di Massimo Corsini
Ancora biomasse. Fino alla nausea. Il rischio sembrerebbe essere quello di scrivere sempre lo stesso articolo. Invece no. Perché è sempre più evidente che quello che sta accadendo in tutta Italia, ovunque, con la formazione di comitati spontanei contro la realizzazione degli impianti a biogas, è ormai un movimento culturale che nasce dalla presa di coscienza della necessità di difendere il proprio territorio da quella che sembra essere a tutti gli effetti una minaccia vera propria. Una minaccia per la salute, per l’ambiente e anche l’economia (non quella dei costruttori di centrali e di qualche amministrazione).
Lunedì scorso, 15 aprile, all’auditorium di Budrio, il comitato “Mezzolara per l’ambiente” aveva invitato, come relatori, il professor Tamino dell’Università di Padova, il professor Rossi dell’Università di Arezzo-Siena e il professor Corti della Statale di Milano: un biologo, un medico ed un agronomo. È il segno che la gente cerca di capire, vuole conoscere e che in una regione che ha nel proprio DNA le rivolte agrarie, bianche e rosse, i conti senza l’oste non si fanno.
“Che cosa significa essere moderni?” ha chiesto retoricamente il professor Rossi all’inizio del suo intervento, come se aprisse un convegno di filosofia. Ebbene significa conoscere scientificamente e razionalmente che cosa ci viene proposto dalle nuove tecnologie. Questa frase che pare uscita da un illuminista del settecento, in realtà sembra calzare a pennello in polemica contro gli amministratori di Regione e Provincia di Bologna che avevano diagnosticato ai comitati la sindrome di Nimby, “Not in my back yard” (non nel mio cortile).
Il punto è che chi ha investito sul biogas, chi ha programmato a tavolino questo espediente per fare soldi, ha tentato di mascherare sotto forma di energia alternativa qualcosa che in realtà è tutt’altro: non è un sistema ecologico, pulito, riciclabile e, come è stato detto più volte, senza gli incentivi dello stato non sarebbe nemmeno un sistema economicamente virtuoso. O per lo meno: non lo sarebbe per chi utilizza colture dedicate o reperisce presso terzi la biomassa. Il sistema non è ecologico perché, come ha spiegato Tamino, l’energia viene prodotta per mezzo di una combustione, cioè si consuma materia per produrre energia, un processo che in natura è in realtà molto raro, ma soprattutto qualsiasi cosa venga bruciata produce uno scarto: in questo senso l’energia prodotta non è riproducibile.
“Bruciare materia per produrre energia è la cosa più stupida che si possa fare, anzitutto perché abbiamo un problema di materia, anche se sappiamo benissimo che una merce deve essere esauribile per avere un prezzo”spiega lo stesso Tamino. La centrale a biomassa produce energia attraverso un sistema che è molto più simile a quello di produzione industriale piuttosto che a quello di madre natura. In realtà, come ha spiegato il professor Tamino, non si tratta letteralmente nemmeno di un’ energia alternativa: “Quando fanno una centrale a biomassa mica ne chiudono una elettrica, ci avete mai pensato? In Italia abbiamo una produzione di energia elettrica che è due volte la domanda massima, ovvero 55 Gigawatt, mentre abbiamo una produzione che si aggira sui 110. Non c’è bisogno di nuove centrali, ma di sostituire centrali inquinanti con fonti veramente rinnovabili”.
Sia Rossi che Corti si sono concentrati principalmente sul problema dello scarto della biomassa: il “digestato”. Nel digestore (il serbatoio dove avviene la fermentazione anaerobica) si verifica lo stesso processo che avviene nel nostro intestino. “Il vero problema è quello che resta, la cacca dell’impianto”, spiega al volgo Rossi. E in modo altrettanto schietto dichiara: “Io dico chiaramente quello che penso: sono contrario a questi impianti. Quello che resta dopo la digestione anaerobica, il digestato, è popolato da batteri la cui azione sulla salute umana, sugli animali e l’intero ecosistema ha conseguenze non ancora note alla scienza. Oltretutto i vantaggi dell’impianto sono tutti soggettivi, i rischi collettivi e questo non è eticamente accettabile”.
Ma non basta, Rossi esibisce anche una lettera del rettore dell’ università di Padova, nonché docente di microbiologia e preside della stessa facoltà di medicina, che conferma il rischio di insalubrità proveniente dallo spandimento del digestato. “Nel giro di pochi anni avrete tutte le falde inquinate” spiega Rossi, “statene certi”. Non si tratta di fare del terrorismo, secondo le parole del docente toscano, si tratta di essere moderni, come dice lui, nel vero senso della parola, cioè cercare di capire realmente la portata reale di un fenomeno. Poi invita la cittadinanza a rivolgersi al sindaco, Provincia ed ASL.
“Hanno delle precise responsabilità. Noi quello che siamo riusciti a fare a Castiglion Fibocchi, in provincia d’Arezzo, dove abbiamo bloccato la costruzione della centrale, lo abbiamo fatto perchè avevamo al nostro fianco il sindaco che è il primo responsabile della pubblica sicurezza: il digestato, fino a prova contraria, è per legge un rifiuto, e come tale va trattato”. Il pubblico mentre ascoltava sorrideva per l’innocenza con cui Rossi pronunciava queste parole, segno che davvero non sapeva nulla del fatto che l’amministrazione stessa era coinvolta nel progetto di realizzazione della centrale.
Il professor Corti per dare l’ordine di grandezza del problema di cui ci si vuole occupare, ha voluto citare qualche numero: nella sua Lombardia, ormai, ci sono 400 centrali, in Italia sono un migliaio per una media di 800 kilowatt ciascuna: la provincia di Cremona, ha ricordato il professore, è praticamente colonizzata “dalle biogas”, come lui le chiama. Senza contare che quelle sui 200 kilowatt non vengono nemmeno denunciate. “Non pensiamo che il peggio sia passato. Siamo in piena corsa al biogas invece” dice.
Le centrali che si fanno in Italia, poi, rispetto a quelle che del nord Europa, sono a temperatura alta per consentire la pastorizzazione del digestato, mentre le nostre sono a bassa temperatura. Tornando al digestato, ha ricordato poi che la sua composizione può inibire la vitalità del terreno. “È ormai dagli anni ’90 che la produttività agricola è calata anche a causa della diminuzione di fertilità del terreno”, un problema che, come ben si capisce, influisce direttamente sulle rese agricole.