di Aldo Tortorella
Nuovamente, la democrazia italiana mostra di essere la più inquieta e turbolenta rispetto a quella che si ritiene la normalità dei paesi dell’Europa. La crisi economica mette in discussione ovunque le basi materiali (la fiscalità, la redistribuzione del reddito prodotto) su cui si reggono gli Stati e il compromesso sociale democratico.
Si estende, non solo nella destra americana, l’interesse per il capitalismo asiatico (cinese) senza democrazia, che fu l’ultima preoccupazione del liberale democratico Dahrendorf. Ma, dall’altra parte, riprende vigore anche l’accusa (Occupy Wall Street ne è un modesto ma significativo segnale) al capitalismo finanziario, il cui trionfo a livello planetario non ne ha spento ma esaltato le contraddizioni. In un mondo economicamente globalizzato si eclissa la sovranità degli Stati nazionali entro cui sono racchiuse le istituzioni democratiche esistenti: l’Europa detta legge ma il suo Parlamento è senza poteri reali. C’è un passaggio d’epoca per le sorti della democrazia dall’esito incerto.
In Italia, all’interno di questa realtà generale, tutto il materiale infiammabile accumulato dalla crisi economica, dalla sua ostinata negazione da parte dei governi di destra, dalle cattive politiche a essa precedenti, e dalle misure inique per porvi rimedio, è venuto concentrando la sua carica dirompente sul sistema politico. Con il risultato della esplosione di un movimento esplicitamente volto ad azzerare tutti i partiti esistenti negandone la diversità secondo il motto, non nuovo, «partiti e politici sono tutti uguali».
E, dunque, tutti da eliminare. Sicché l’anomalia italiana non consiste nella difficoltà estrema per la costituzione di un governo stabile, ma nei motivi paradossali che la generano. Il Belgio dopo le sue elezioni ha impiegato più di un anno per avere un governo: ma si tratta di un paese composto da due nazionalità con due lingue e due culture profondamente diverse ed è dunque logico che la conciliazione (provvisoria) sia stata difficilissima, e tuttavia resa alla fine possibile perché nessuna delle due parti contestava le regole democratiche. In altri paesi (l’Austria, la Germania) ci furono nel passato situazioni di stallo che furono risolte con la composizione di governi tra forze tra di loro politicamente opposte, ma rispettose di comuni codici di legalità.
In Italia, al contrario, le diversità tra le forze politiche tradizionali, negata dal Movimento 5 Stelle, sono, anche solo dal punto di vista del buon senso civico, abissali proprio dal punto di vista del rispetto della legalità democratica. E, infatti, una coalizione destra-sinistra, per quanto informale (il governo dei tecnici), ha già significato un prezzo enorme per il centrosinistra e un grosso regalo al nuovo movimento, e trova un ostacolo non superabile per la natura di una destra capace di riunificarsi solo attorno a un capo improponibile e impensabile in qualsiasi altro paese con uno Stato di diritto. E il tentativo del Partito popolare europeo e di un settore minoritario della grande borghesia italiana di formare attorno a Monti uno schieramento moderato di tipo europeo ha avuto l’esito più che modesto che si conosce.
Allo stesso tempo, l’intesa pensabile su alcuni punti programmatici comuni tra il centrosinistra e il nuovo raggruppamento politico che ha d’un colpo vittoriosamente conquistato un quarto degli elettori è bloccata da una concezione francamente estranea a una democrazia plurale per sua natura. Dice il capo del Movimento 5 Stelle: o votate un governo mio o niente. Il che equivale a dire: solo io ho ragione, solo i miei voti contano. Se Berlusconi si ritiene al di sopra della legge, Grillo, considerando tutti gli altri egualmente spregevoli, si propone come l’unico possibile creatore della legge. Nel momento in cui il papa fa capire di essere un comune mortale e chiede perdono dei suoi errori, dunque non più infallibile, pretesi supereroi fanno capolino. Naturalmente, gli uomini della provvidenza parlano e parleranno sempre in nome degli uomini definiti semplici – o comuni o qualunque – che loro, i capi carismatici, sono chiamati a salvare.
Dalla parte di Grillo è stato ripubblicato un pensiero di Simone Weil che spiega che i partiti hanno come unica e deplorevole finalità la propria autoconservazione e il proprio successo. Certo, questa è la possibile dannazione dei partiti, cui bisognerebbe continuamente far fronte. Una dannazione visibile nel modello staliniano, che era il principale obiettivo di quel manifesto antipartito di Weil. Ma quale fine persegue Grillo nel negare la possibilità di qualunque mediazione politica per la costituzione di un governo con un programma condiviso? La finalità è dichiarata: fate un governo tra le due coalizioni opposte che sarà paralizzato dai contrasti, costringerà il Pd e Pdl ad altre scelte incongruenti con i loro programmi e il loro essere, così tra breve si tornerà al voto e io prenderò molti più voti di quelli che ho già incassato ora. Il progetto per cambiare la logica partitica si risolve nella sua esaltazione più esplicita e più sgradevole. Anche perché il nome stesso di quello che non si chiama partito ma “movimento” è, per statuto, una proprietà personale di Grillo, cosa mai vista se non nelle imprese a fini di lucro.
Per il formarsi di questa situazione italiana in cui la farsa si mescola al dramma, il centrosinistra ha pesanti responsabilità. Esse non stanno solo o tanto nella infelice conduzione della campagna elettorale criticata (non senza qualche oltraggio un po’ vile) da molti commentatori: il convincimento d’avere la vittoria in tasca, la incapacità di esprimere un forte messaggio innovatore, l’eccesso di lealtà e di continuismo verso il governo Monti, il peso inutile e controproducente dato al tema delle alleanze post-elettorali, la sottovalutazione della rimonta berlusconiana, l’esecrazione piuttosto che un argomentato contrasto delle dottrine e delle soluzioni del grillismo. Non c’era bisogno di abbandonare la giusta scelta della pacatezza e del rifiuto della demagogia per superare almeno in parte questi difetti e questi errori. Ma questi errori erano difficili da correggere e non sono stati corretti perché venivano, innanzitutto, da una distanza dalla realtà divenuta sempre maggiore.
Il centrosinistra non ha capito bene, fino in fondo, la qualità e l’estensione di quel “disagio sociale” di cui pure parlava. Altro che disagio. L’impoverimento dei più e la disperazione di molti si sono venuti sommando con l’indignazione per i disgustosi esempi forniti da tanti politici e per il rifiuto d’ogni avvertibile sacrificio da parte degli eletti, mentre si imponevano sacrifici a tutti. In chi nella crisi ha pagato più caro, l’indignazione si faceva rabbia. Montava visibilmente uno spirito di rivolta. Non quella immaginata da una sinistra detta alternativa, ma ancorata a così logorate immagini da divenire irrilevante. Una rivolta composita, confusa, con motivazioni di destra e di sinistra, ma unificata da una esigenza morale. Tanti hanno, ma invano, lanciato l’allarme e avanzato proposte di rigenerazione della politica e della sinistra (tra cui, e da molto tempo, anche questa rivista) su cui il centrosinistra avrebbe potuto e dovuto alzare la voce e battersi con energia.
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 1/2013 di Critica Marxista