Ricostruire la sinistra "non per vincere domani, ma per operare ogni giorno"

22 Marzo 2013 /

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di Angela Pascucci
Siamo in piena dinamica post elettorale. Non è vero che i giochi siano fermi, paralizzati dai veti reciproci. L’elezione dei presidenti della Camera e del Senato ha mostrato linee di frattura, margini di manovra e possibilità che consentono alla dialettica istituzionale di arrivare a qualche risultato, il minimo dei quali potrebbe essere un governo di transizione che faccia una riforma elettorale, ritocchi i costi della politica, tamponi le emergenze più gravi e porti a nuove elezioni in autunno. Inquietante, e da incoscienti che sia, la fase attuale è percepita da tutti gli attori in gioco come transeunte e l’unica cosa che conta sembra essere come arrivare più forti alla fase successiva. A meno che la realtà degli spread e della finanza non decida ancora una volta di intervenire pesantemente e dettare le sue regole. Gli scricchiolii di Cipro (vera cloaca finanziaria piazzata nel cuore del Mediterraneo) preannunciano tempesta, ma di un tipo nuovo.
Prima domanda. Ci interessa intervenire in questo piano del discorso che punta a una fase di transizione? E se sì, quale potrebbe essere una proposta che non sia pura testimonianza e abbia qualche possibilità di incidere? E ammesso che ci sia, di quali strumenti potrebbe essere dotata? Gettiamo anatemi contro il M5S e lanciamo un’offensiva per sottrargli l’acqua in cui nuota oppure ci uniamo al coro di quel 10% dei “nostri” che ha votato Grillo e chiede oggi un’alleanza organica e durevole a sinistra?
Questi interrogativi, ai quali io non so rispondere, potrebbero essere il punto di partenza di una discussione ma sono convinta che la dimensione del breve e medio periodo purtroppo non si attaglia alla portata delle vere questioni che dovremmo affrontare. In qualche modo convergo dunque con il ragionamento di Tiziana quando afferma nel suo intervento che “dobbiamo creare qualcosa di totalmente nuovo”. Cerchiamo però prima di capire che cos’è il “nuovo” che avanza e che ci ha preso alle spalle.

La situazione è molto seria, ma demonizzare il M5S non serve a niente. Alcuni miei amici lo hanno votato, per una serie di ragioni diverse ma con un unico sentimento: il rifiuto dell’esistente. Lo tsunami non lo ha prodotto Grillo: lui e il suo movimento si aggirano e sono cresciuti in uno scenario di devastazione prodotto da 20 anni di berlusconismo e di risposte inadeguate, quando non complici dello sfascio, che hanno lasciato la sinistra in braghe di tela.
Il M5S, nella sua ambiguità ideologica che ha reso possibile la spallata rabbiosa generalizzata e trasversale (punto a mio avviso fondamentale per capire dove ci troviamo e identificare vie di uscita), è il frutto compiuto dello stravolgimento a cui la sinistra tutta ha sottoposto la propria cultura e identità da qualche decennio. Non è andata a picco solo un’ideologia ma anche tutti i fondamentali su cui costruire una visione del mondo, senza i quali non si può tracciare nessuna mappa che ci faccia uscire dall’impasse. Soprattutto occorrerebbe riflettere sull’interdetto, voluto e concordato, che ha colpito il conflitto sociale come strumento di lotta (bandito dagli anni Settanta in quanto appaiato al terrorismo).
Rimosso, il conflitto torna in forme degenerate, sospinto dalla gravissima crisi che devasta le vite. Domanda: ma perché la sinistra, quella alla quale facciamo capo intendo, non è mai riuscita a trasformare in modo convincente la propria carica critica e oppositiva in una forza dirompente capace di ribaltare i tavoli? Perché ha perso ogni credibilità e attrazione in quanto forza di cambiamento? Perché è stato un movimento confuso come quello di Grillo a intercettare l’insofferenza e la voglia di dare una spallata al sistema? E oltre tutto nel momento storico in cui tutte le critiche, le analisi condotte dalla sinistra radicale mondiale nei confronti del sistema e delle sue ricette, economiche, politiche, sociali, sono confermate da una gravissima crisi globale.
Attinente a questo interrogativo, e in un ambito più vasto di riflessione sugli errori e le omissioni, un’altra delle questioni da prendere di petto è lo stravolgimento dei termini con cui viene descritta la realtà. Il primo compito che ci spetterebbe sarebbe quello di una restituzione di senso al linguaggio politico, senza di che affoghiamo nella confusione coltivata dagli altri. Grillo, secondo alcuni, non rispetterebbe il gioco democratico e rifiuterebbe l’essenza stessa della democrazia. A mio avviso invece l’affermazione dei 5 stelle mette a nudo e pone senza mezzi termini la questione di che cosa sia oggi l’essenza della democrazia e di quali siano gli strumenti che la realizzano.
Partiti, movimenti, gruppi di interesse a tutti i livelli; organizzazioni governative e non; istituzioni locali e nazionali; stato nazionale e istituzioni sovranazionali; flussi globali di merci, capitali e persone; correnti sotterranee per lo più illecite ma di dimensioni planetarie, dove si nutre e prospera una criminalità diffusa capillarmente che ormai innerva l’economia legale. Per non parlare delle dimensioni individuali e delle questioni identitarie la cui formazione ed espressione è ormai profondamente influenzata dai social network e più in generale dalle nuove tecnologie che hanno indotto mutamenti antropologici epocali. Non certo per magia, ma perché hanno fatto irruzione in una dimensione, quella personale, stravolta dai cambiamenti subiti in primo luogo dalla dimensione del lavoro e, più in generale, dal senso del futuro. È questo l’elenco, parziale e affastellato, che mi viene in mente quando penso alle dimensioni con cui una democrazia che si voglia compiuta e sostanziale deve confrontarsi.
Davanti a questo scenario, la politica reale, anche quella di Grillo, risponde in modi fra loro diversi, ma con scorciatoie, semplificazioni, mistificazioni e miti (governi tecnici o onnipotenza della rete, diktat delle regole economiche che si vogliono uniche e infallibili o kit dell’attivista che si affida al predominio della maggioranza virtuale, facilmente manipolabile, per imporre soluzioni indifferenziate e buone per tutti, dal piccolo imprenditore ex leghista al militante no tav). E francamente penso che se il territorio e la dimensione locale sono la dimensione necessaria da cui ripartire e trovare ancoraggio, non possono tuttavia esaurire la molteplicità e la complessità che il mondo ci consegna. I Forum sociali mondiali e i movimenti transnazionali sono stati i primi campi di battaglia di una partita d’avanguardia e di conflitto più complessa ma il loro approdo non è stato finora all’altezza di quelle ambizioni. Perché?
Se poi penso a un’agenda concreta su cui riflettere e lavorare, vi sono temi più ristretti nella definizione ma decisamente più complessi, se si guarda alle loro implicazioni. Mi riferisco ad esempio alla scuola che da troppo tempo torna alla ribalta solo come rivolta e rifiuto della deriva e del degrado in atto ma che vede la sinistra, anche e soprattutto quella a cui facciamo riferimento, latitare nella definizione della sostanza più profonda del sistema educativo. Non basta opporsi ai finanziamenti alla scuola privata e chiedere un reinvestimento su quella pubblica, parallelamente deve partire un grande confronto sul senso e sui contenuti che la scuola trasmette, a tutti i livelli, e sulla distruzione operata anche, e soprattutto, da sinistra, della sua capacità di formare persone libere e con pari opportunità di evoluzione cognitiva e sociale, a prescindere dalla classe di provenienza.
Ogni incontro ravvicinato col mondo della scuola conferma che dal punto di vista sociale e culturale la scuola in tutti i suoi gradi è un nastro che si sta riavvolgendo, come se la formazione che le viene ora assegnata servisse a riprodurre individui funzionali a un mercato del lavoro debole e precario, a una visione del mondo in cui il destino è predeterminato dall’appartenenza di classe e dal capitale sociale di cui si dispone. Un meccanismo che seleziona fortemente gli “eletti” del sistema.
Molto si riparla del ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, rilanciati dalla crisi globale. Ma se le nuove regole e i controlli per le società a partecipazione pubblica sono assolutamente necessarie, bisogna al tempo stesso porre, e aggiornare, la questione di ciò che significhi oggi partecipazione pubblica, statale e più in generale di quale debba essere il ruolo dello stato nel governo dell’economia. È solo dopo questa riflessione che si può dare senso a un keynesismo rinnovato che riporti l’economia sotto il controllo della politica. Ma prima ancora l’economia, la sua sostanza e le sue regole, devono tornare a essere un terreno di scontro furibondo.
Bisogna fermare le grandi opere, ma la messa in sicurezza del territorio deve essere accompagnata da un ragionamento a più largo raggio sui processi di urbanizzazione (una nuova concezione delle città e del governo del territorio urbano è impellente e non è neppure lontanamente nelle agende delle sinistre varie), da una rielaborazione a tutto campo della questione ambientale (e produttiva, vedi Ilva e altri delitti) tale che se ne possa fare il volano di un nuovo modello di sviluppo. Automatico il legame di questo aspetto con la più vasta questione energetica.
Per combattere la corruzione che ci dissangua ed è il tassello più schifoso del tradimento operato dai governanti verso i governati, occorre ingaggiare una battaglia violenta sulle situazioni e i casi specifici (con indagini e denunce) ma anche avviare una riflessione sullo scivolamento progressivo dell’intero paese verso una condizione di illegalità diffusa e capillare, complice della corruzione piccola e grande, che da solo spiega il successo reiterato (anche se ridotto) di Berlusconi.
L’elenco è ben più lungo ma questi tre temi indicano bene la profondità dello sguardo che occorre avere nell’affrontarli, se vogliamo ricostruire una cultura politica di sinistra. Ha ragione Guido Ambrosino quando scrive che il nodo messo a nudo dal Manifesto comunista del 1848 irrisolto è rimasto, in ragione dei fallimenti del Novecento e che il passare dall’analisi delle classi a quella delle caste ha portato a una chiave di lettura semplificata quanto ingannevole, soprattutto quando è necessario elaborare soluzioni che ribaltino l’ordine del discorso.
Ancora oggi non vedo nell’attuale panorama politico italiano forze di sinistra in grado di far uscire il carro dalla palude. L’ultimo appuntamento elettorale ha squassato tutte le piccole armate Brancaleone che oggi non ritengono neppure necessario riflettere sul proprio fallimento, a conferma di quanto ingannevole sia la dimensione delle urne se in essa sola precipita il senso della democrazia. Quindi non sarà facile arrivare a soluzioni rapide. Nel breve periodo si può solo cercare di stare insieme per cercare di capire cosa fare per non essere travolti dalle dinamiche altrui ed evitare che questo infelice paese precipiti definitivamente in un baratro.
Nel frattempo proviamo ad aprire un grande confronto e dibattito sul perché la sinistra si è svuotata di senso, diventando politicamente irrilevante, e sul come ridarle un ruolo, e non certo per protagonismo ma perché pensiamo che sia ancora depositaria delle soluzioni migliori e più “alte” allo sfacelo. Solo da qui possono arrivare anche proposte concrete e un’indicazione del modo in cui realizzarle. Non è più possibile asserire che un altro mondo è possibile se non si trova la forza e la capacità di costruirlo.
Se Guido Ambrosino si rivolge nel suo intervento al primo editoriale di Luigi Pintor, io chiudo ricordando l’ultimo, che iniziava con queste parole “La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure un’alternanza… Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra, ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno”.
E si chiudeva auspicando “non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica e religiosa. Individui ma non atomi che si incontrano e si riconoscono quasi d’istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con spontaneità, ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste”.

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