di Stefano Galieni
Il volantino di convocazione è scritto in prima persona plurale. Il linguaggio è semplice, coniuga le istanze di chi è lavoratore o lavoratrice, di chi in Italia è cresciuto e ha maturato un progetto di vita, di chi è stanco di essere bersaglio del razzismo di strada come di quello istituzionale. Racconta in sintesi delle tante persone costrette a tornarsene al paese di provenienza, perdendo anni di contributi versati, perché di lavoro ce ne è poco, spesso solo in nero, sottopagato e che non dà diritto a mantenere il permesso di soggiorno. Racconta di salari mangiati dalle tasse, di spese impossibili per rinnovare documenti che scadono dopo pochi mesi, di sanatorie truffa, di un diritto di asilo di fatto inesistente. Ma è un volantino di quelli che piacerebbe veder emergere dai luoghi di lavoro a forte presenza autoctona, magari con l’appoggio dei sindacati che invece tacciono o restano a voce bassa.
«Oggi però, noi migranti abbiamo ricominciato a sognare – si legge – abbiamo accumulato forza, dentro e fuori i posti di lavoro, abbiamo lasciato alle spalle la paura e preso la parola insieme, donne e uomini. Ora è arrivato il momento di uscire dai luoghi di lavoro, dalle case e dalle comunità per invadere le strade tutti insieme […]. Sappiamo che non siamo soli, al nostro fianco ci sono i nostri figli che vogliono la cittadinanza per liberarsi dalle catene del permesso di soggiorno. Sappiamo che con noi ci sono operai e precari, donne e uomini: perché sanno che la Bossi-Fini con il suo razzismo è una legge che indebolisce tutti i lavoratori, italiani e migranti». Scenderanno in piazza sabato 23 marzo a Bologna – l’appuntamento è alle 15 in Piazza XX Settembre – e potrebbero essere in molti. L’iniziativa, organizzata dal locale “Coordinamento migranti” sta ricevendo numerose adesioni da parte di associazioni, realtà di movimento, comunità, assemblee di lavoratori e poche forze politiche.
Ma al di là dell’evento in sé – di cui Corriere Immigrazione darà conto – è interessante l’intenso e faticoso lavoro che i promotori stanno effettuando per allargare il coinvolgimento. Ce ne parlano i diretti interessati. Mourad è marocchino, vive da 12 anni in Italia con una bella famiglia. Ha trovato casa a Ferrara, ma lavora a Bologna presso la Tnt, logistica trasporti: «Dobbiamo darci da fare e ce la faremo.
Questa manifestazione è importante e arriveranno delegazioni da molte città italiane, soprattutto del nord – afferma. Il 22, il giorno prima, come Cobas abbiamo indetto uno sciopero generale della nostra categoria. La Cgil sta cambiando il contratto nazionale ed è in trattativa, ma non ci consulta come lavoratori. Non è modo di rispettarci e questo ci conferma che su questo sindacato non si può contare. Quindi uno sciopero diventa necessario e credo che vi parteciperanno anche tanti lavoratori italiani nelle stesse nostre condizioni. Spero che molti di loro poi vengano in piazza, perché questa lotta contro la Bossi-Fini ci unifica».
Milena, invece, è macedone, è entrata in Italia con un visto di studio – frequenta la facoltà di giurisprudenza – e attualmente si guadagna da vivere lavorando in un albergo: «In realtà in questo periodo c’è poco lavoro e quindi fatico a pagarmi le spese. Anche questo lo trovo profondamente ingiusto. Sono qui da 10 anni e non è possibile ritrovarsi in queste condizioni. Ritengo profondamente necessaria questa manifestazione. Io mi sono avvicinata al Coordinamento partendo dai problemi che ha ogni migrante, il rinnovo del permesso di soggiorno. Li ho incontrati e un problema individuale è diventato elemento di lotta collettiva».
Milena appare molto determinata nel suo percorso e mostra di avere una visione ampia dei problemi: «Noi siamo andati oltre le fabbriche in lotta. Abbiamo coinvolto le associazioni e le scuole di italiano per migranti, a cui si rivolgono i più bisognosi che debbono imparare la lingua per il patto di integrazione e spesso hanno problemi a far coincidere tempi di studio e tempi di lavoro. Parlo di persone che si stanno costruendo una vita con tanti sforzi e che si scontrano con il legame micidiale, che va spezzato, fra il contratto di lavoro e il permesso di soggiorno. Questo – continua – è ancora più necessario e urgente oggi che il costo del permesso è aumentato ed è sempre determinato dai termini in cui scade il contratto di lavoro. In pratica, più sei precario, più paghi ed aumenta la catena di cose che devi dare allo Stato senza ricevere in cambio niente.
Cercano di farci stare zitti di soffocarci con la paura di perdere il lavoro. Il sistema di precarietà che c’è qui ha permesso che si realizzasse un sistema gerarchico micidiale. Fino ad ora ha colpito i più deboli, adesso comincia a toccare anche gli italiani garantiti, ma non bisogna chiudersi a pensare solo alla propria sopravvivenza, dobbiamo dare oggi un segnale forte allo Stato, far sentire che noi ci siamo».
Milena si sofferma poi su un elemento troppo spesso trascurato: il maschilismo sotteso dal razzismo istituzionale. «Basti pensare che la possibilità per le donne di conservare il permesso è legata spesso a quella del marito. Non possiamo essere considerate libere. Senza parlare del razzismo che le donne più di tutti subiscono nei luoghi di lavoro». Milena sa che in questi anni si sono utilizzate le difficoltà ad avere il permesso per aumentare il lavoro nero e costringere alla clandestinità: «Chi è in nero è clandestino, costa meno ed è più ricattabile.
Si tratta di un gioco malato attraverso cui ci rimettono anche gli italiani. Tanti pensano che il problema lo creiamo noi, in realtà ci rimettiamo tutti. Da una parte si fanno contratti così precari da non permettere agli italiani neanche di sognare la pensione e in cui gli stranieri vedono solo volare via i propri contributi. Affrontiamole insieme queste situazioni e troviamo una strategia di lotta comune».
Babacar è presidente dell’Associazione senegalese a Bologna e si sta adoperando affinché i propri connazionali, ma non solo, vengano in massa alla manifestazione. In Italia da 24 anni, divorziato con i figli in Senegal, è oggi disoccupato dopo aver lavorato molto alla Cooperativa Adriatica come magazziniere e cassiere. Uno degli “storici” del Coordinamento migranti. «Molti di quelli che saranno coinvolti nella manifestazione lavorano nelle cooperative di logistica in cui la manodopera è per lo più migrante e perennemente ricattata. Ci sono state vertenze che sono divenute famose a livello nazionale come quella all’Ikea di Piacenza, e storie di cui si è parlato solo in provincia – ricostruisce Babacar – Ad esempio, in un un’azienda ad Anzola, mettono insieme prodotti che poi finiscono nei supermercati della Coop.
Pagano poco e hanno provato a fare licenziamenti. I lavoratori si sono imposti e i licenziamenti sono rientrati. Ma il problema si estende ad un tessuto vasto di lavoratori assunti nelle cooperative con contratti a termine o come indeterminati. Parlo di realtà grandi come la Sda, la Tnt, la Lhs. In gran parte ci lavorano immigrati e grazie agli accordi aziendali effettuati con l’articolo 8 della riforma Sacconi sono tutti sottopagati. Prendono dai 600 agli 800 euro per 8 ore di lavoro pesante. Poi anche il contratto a tempo indeterminato non è una garanzia per il permesso di soggiorno. Ogni tanto le cooperative cambiano nome e si viene rimessi in proroga».
Babacar parla ormai il linguaggio del lavoratore altamente sindacalizzato, ma restando su ragionamenti terribilmente concreti: «A noi ha dato una mano soltanto il Si Cobas, i sindacati confederali ci hanno ignorato, eppure di problemi ne solleviamo molti. La questione del lavoro si intreccia inevitabilmente con quella del diritto di soggiorno – riprende – Io l’ho vissuto personalmente alla questura di Bologna e ne ho visti tanti di amici che non avendo reddito venivano sfrattati, perdevano il permesso ed erano costretti a rimandare a casa le proprie famiglie, anche perché il costo dei permessi è aumentato.
Nel frattempo la nostra vita è totalmente decisa dai datori di lavoro e dalle leggi razziste. Pensa solo che anche se lavori per venti anni, all’atto della verifica della sussistenza del reddito necessario per il permesso si guardano solo gli ultimi due anni. Il resto è perso e lo abbiamo regalato». Babacar è fra i più attivi organizzatori dell’iniziativa: «Abbiamo fatto alcuni giorni fa un’assemblea con almeno 400 lavoratori, provenienti anche da altre città del nord e nelle stesse nostre condizioni. Vogliamo lanciare un segnale al nuovo parlamento e a quello che potrebbe essere il nuovo governo affinché si abroghi la Bossi-Fini, una legge assurda che ci rende clandestini. Ma non ci dobbiamo fermare con questa manifestazione. Dobbiamo cominciare a pensare ad un passo più grande, che sia una manifestazione nazionale o una giornata di sciopero. Ora siamo noi che ci dobbiamo far sentire».
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione il 10 marzo 2013