di Simona Hassan
Sono arrivata ai Prati di Caprara con poche informazioni riguardo allo stabile che ospita, almeno fino al 28 febbraio, centotrentasette rifugiati politici. I pochi che si sono occupati della questione (il centro sociale TPO, associazioni come la 3f, il quotidiano online autogestito ZIC) parlano di un capannone fatiscente, ma di edifici fatiscenti a pochi chilometri dal centro di Bologna ce ne sono tanti. Chiedo informazioni: un ragazzo mi dice che ogni sera vede “gruppi di negretti che entrano da quella torretta laggiù”. Un signore invece mi dice che c’è una porticina da cui vede entrare e uscire gente, ma lui “non sa nulla”.
Foto di Simona Hassan. Il reportage completo è disponibile all’indirizzo simonahassan.com/prati-di-caprara
Mi avvicino al luogo indicatomi e mi rendo conto di non averlo notato prima nonostante ci sia passata davanti diverse volte. Un motivo c’è: si tratta di una ex caserma, una zona militare con tanto di alte mura e filo spinato. Entrano ed escono diversi giovani, ma almeno inizialmente la curiosità e l’empatia che provo sono frenate da un forte senso d’inadeguatezza: è un sentirsi fuori-luogo, è la difficoltà di trovare un punto di incontro, un dialogo, con persone che per quasi due anni hanno ricevuto solo lunghi silenzi. E tuttavia trovo il coraggio, chiedo informazioni e sono invitata a entrare.
Conosco Francis, un giovane francese che in Libia ha lasciato moglie e figlioletta, con cui non è in contatto da più di due mesi. Prova a raccontarmi come hanno fatto a sopravvivere fino ad oggi nelle condizioni in cui si trovano: in realtà non lo sa neanche lui. Centotrentasette persone abitano da un anno e otto mesi in uno stabile senza riscaldamento, lavano i propri panni a mano e dormono in sei (e più) nella stessa stanza. Cercano di scaldarsi con coperte e vestiti raccattati in giro o regalati da amici italiani. Si dividono due bagni sporchissimi e stanze piene di rottami.
Non vedo docce, ma c’è un tubo che suppongo sia utilizzato come tale. L’acqua calda è un lusso che non ci si può concedere. Diverse biciclette servono a raggiungere il centro di Bologna, nel disperato tentativo di far passare il tempo. Nella “sala comune”, all’ingresso della caserma, c’è un televisore con davanti quattro sedie, come in una sala d’attesa. C’è anche una porta chiusa con affissi vari cartelli: è l’infermeria, chiusa da più di otto mesi ormai. Mi chiedo se è qui che sono finiti i tre milioni di euro consegnati alla CRI (Croce Rossa Italiana) per la gestione della cosiddetta emergenza ENA (emergenza Nord Africa).
Messa di fronte alla situazione di questi giovani non posso fare altro che riconoscere l’enorme forza che ancora hanno, che leggo nei loro occhi e che li spinge a scrivere quanto si legge nel comunicato dell’iniziativa dell’undici febbraio: “Ringraziamo per la “lezione di democrazia”, ma non ci scoraggiamo, perché il nostro futuro è qui, in Italia, e possibilmente a Bologna. Forse il Prefetto preferirebbe vederci scomparire nelle campagne di Rosarno, o negli slums di Roma, di cui ha scritto scandalizzato anche il New York Times, sappiamo che molti amministratori confidano che tutto si risolverà perché ci dissolveremo in Europa… Ma noi rifiutiamo di pagare con la prospettiva di schiavitù, illegalità e irregolarità per le nostre vite le scelte politiche in materia di accoglienza e asilo di questo e del precedente Governo, e rivendichiamo il diritto di ricostruire la nostra dignità spezzata”.
Forza d’animo che però non è di tutti: parlo con August che mi chiede cosa spero di ottenere con le fotografie che faccio e con quello che scrivo. Mi dice che le persone conoscono la loro situazione, ma non fanno nulla, niente è cambiato da quando sono arrivati: nessuno ha mai ricevuto una vera assistenza, nessuno ha mai potuto lavorare. Francis mi racconta di essere stato volontario, come molti altri migranti, per otto mesi nel Tribunale di Bologna. Gli è stato rilasciato un foglio in cui vengono lodati impegno, correttezza e affidabilità, “un’ottima relazione personale ed umana” che attesta la completa realizzazione di integrazione sociale e culturale. Francis è lucido nel suo racconto, ma visibilmente preoccupato.
“Ci sono idraulici, elettricisti, imbianchini, parrucchieri, tra di noi. In Libia lavoravamo, mentre qui non possiamo neanche iniziare una nuova vita. Come facciamo? Guarda dove viviamo, siamo trattati come animali”, mi racconta con un plico di curricula in mano da portare a chiunque, per fare qualsiasi cosa, “per far passare il tempo”. Rimango senza parole e senza risposte: intrappolati, senza documenti, senza possibilità di scelta, reclusi senza colpe. I desideri di tutti sono i più semplici: avere un lavoro, una buona moglie, dei bambini, una vita normale.
È l’ora di pranzo e noto un via-vai da dentro alla caserma a fuori. Lo spazio è enorme. Al piano di sopra è stata allestita una mensa dove vengono consegnati i pasti dagli operatori della Croce Rossa. Uno di questi mi nota, mi fissa per qualche minuto senza fare niente, poi fa una telefonata e se ne va. I ragazzi ricevono quarantacinque euro mensili, in voucher che possono spendere in Coop.
August mi racconta che cercano di racimolare qualche soldo vendendo oggetti perlopiù raccolti in strada e che vedo accatastati in diversi angoli della caserma. Nonostante i mucchi di sporcizia, i rottami sparsi ovunque, gli oggetti rotti e abbandonati, si percepisce un vivace tentativo di organizzazione. Una stanza è stata adibita alla preghiera cristiana, qualche versetto scritto sul muro può bastare. Un’altra a quella musulmana, come testimoniano i tappeti a terra. Un’altra stanza con un tavolino e una sedia un po’ più comoda di altre è riservata al taglio dei capelli, in un angolo una libreria impolverata. Il piccolo commercio interno, con cui i migranti cercano di procurarsi dei soldi per le proprie esigenze, striscia tra i televisori accatastati. In un angolo un ragazzo cerca di riparare una bicicletta.
Conosco Kennedy che mi fa accomodare nella sua stanza, la stanza di altre sette persone: mi dice di sedermi, mi chiede se voglio dell’acqua e dove può trovare un lavoro e una camera in affitto. Sorrido e rispondo che anche io sono senza lavoro, ma lui mi risponde: “No, sono serio, puoi aiutarmi? Dove trovo un lavoro e una camera?”. Mi faccio seria anche io.
Dopo la protesta dell’undici febbraio, in cui i migranti hanno occupato il cortile della Prefettura per chiedere risposte concrete, il capo di gabinetto ha affermato che i rifugiati che lo richiederanno saranno provvisti di un titolo di viaggio, ma “nessuna soluzione abitativa verrà predisposta dopo il 28 febbraio”. Dopo un anno e otto mesi di non-risposte i migranti dovranno lasciare anche questo luogo desolato. Verranno dati loro mille euro, ancora da trovare, e nessuna speranza.