di Sergio Bontempelli
Quasi tutti gli schieramenti politici in corsa per le prossime elezioni sostengono il diritto alla cittadinanza per chi nasce in Italia. Ma proprio questa “quasi-unanimità” ha contribuito, paradossalmente, a occultare l’altra proposta di legge di cui si era fatta portatrice la campagna L’Italia sono anch’io: quella sul diritto di voto amministrativo per chi risieda sul territorio italiano da più di cinque anni. Ne parliamo con Giulia Perin, avvocatessa, del direttivo nazionale dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione).
La proposta di legge presentata da “L’Italia sono anch’io” fa riferimento alla Convenzione di Strasburgo. Può spiegarci di cosa si tratta?
«È una Convenzione internazionale elaborata il 5 febbraio 1992 dagli Stati aderenti al Consiglio d’Europa. Nonostante il nome simile, che crea confusione tra i non addetti ai lavori, il Consiglio d’Europa, o Coe, non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea, e nemmeno con il “Consiglio Europeo” che è appunto un organo della Ue: si tratta di istituzioni internazionali molto diverse. Il Coe si occupa di promuovere la democrazia e lo Stato di diritto, ed è composto anche da paesi che non aderiscono all’Ue: solo per fare qualche esempio, ne fanno parte la Russia, l’Albania, l’Ucraina o la Moldavia. Inoltre, mentre le Direttive e i regolamenti emanati da Bruxelles hanno valore di legge, gli atti del Consiglio d’Europa devono essere ratificati dai singoli paesi. E difatti, uno dei problemi della Convenzione di Strasburgo è che l’Italia non l’ha ratificata integralmente».
Andiamo con ordine. Cosa prevede la Convenzione?
«La Convenzione garantisce il “diritto di partecipazione degli stranieri alla vita pubblica”. È importante sapere che si divide in tre parti. La prima – il “capitolo A” – estende agli stranieri alcuni diritti fondamentali dei cittadini: la libertà di espressione, di opinione e di associazione, il diritto di ricevere o comunicare informazioni, di riunirsi pacificamente e di dar vita ad associazioni e sindacati. La seconda – il “capitolo B” – impegna gli Stati firmatari a creare a livello locale (nei Comuni o nelle Province) organi consultivi e di rappresentanza degli stranieri residenti. La terza – il “capitolo C” – obbliga gli Stati ad introdurre il diritto di voto amministrativo per i migranti che risiedano legalmente da almeno cinque anni».
Diceva prima che l’Italia non ha ratificato integralmente questa Convenzione…
«L’art. 1 della Convenzione prevede che, all’atto della ratifica, ciascuno Stato possa dichiarare di non applicare il capitolo B o il capitolo C, o entrambi. L’Italia ha ratificato il capitolo B (quello relativo agli organi consultivi di rappresentanza), ma non il C: ha deciso cioè di non attribuire il diritto di voto amministrativo. La proposta di legge de “L’Italia sono anch’io” mira appunto a riparare questa mancanza: all’art. 6, il testo autorizza il Presidente della Repubblica a ratificare anche il capitolo C della Convenzione».
Perché l’Italia non ha ratificato il fatidico capitolo C?
«Le ragioni sono varie, e naturalmente molte hanno natura politica. Dal punto di vista tecnico-giuridico, si è sostenuto che per attribuire il diritto di voto serva una modifica della Costituzione: l’art. 48 della nostra Carta fondamentale dice che «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età», e la parola “cittadini” ha fatto pensare che gli stranieri debbano essere esclusi da queste disposizioni…».
Lei condivide questa interpretazione?
«Il diritto non è una scienza esatta, e ogni testo normativo è suscettibile di interpretazioni diverse. Questa lettura dell’articolo 48 è ovviamente fondata, e chi la sostiene ha le sue buone ragioni. Come cittadina e come attivista, sono favorevole al diritto di voto, perché non è pensabile che cinque milioni di persone, che vivono e lavorano nel nostro paese, siano escluse dalla rappresentanza. Da avvocatessa e da giurista, mi limito invece a far notare che questa interpretazione, pur legittima, non è l’unica possibile. Un grande costituzionalista, Enrico Grosso, ci invita per esempio a rileggere parola per parola proprio l’art. 48 della nostra Carta. «Sono elettori tutti i cittadini…» significa che tutti gli italiani devono poter votare, e che nessun cittadino può essere privato dei suoi diritti elettorali. La Costituzione si limita quindi ad assicurare una prerogativa dei cittadini, ma non dice nulla circa la sua eventuale estensione a soggetti che cittadini non sono: i costituenti hanno voluto cioè garantire un diritto ad alcuni, non vietarlo ad altri.
In questo quadro, è assolutamente legittimo introdurre il voto amministrativo tramite una legge ordinaria. Tra l’altro la Corte Costituzionale, in una sentenza di qualche anno fa (la n. 172/1999), ha spiegato che il popolo italiano deve essere inteso come «una comunità di diritti e di doveri più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto». Una legge come quella promossa da “L’Italia sono anch’io” sarebbe quindi più che legittima, in armonia con lo spirito della Costituzione».
In questi anni, gli enti locali hanno promosso molte iniziative per la partecipazione dei migranti alla vita politica. Cosa pensa di queste iniziative?
«Una decina di anni fa, alcune amministrazioni comunali – ricordo in particolare Genova, Venezia e Forlì, ma ce ne furono molte altre – fecero un atto coraggioso: inserirono il diritto di voto direttamente negli Statuti comunali. In questo modo, i migranti avrebbero potuto votare alle successive elezioni, senza attendere una legge del Parlamento. Era un gesto coraggioso, dicevo, perché dal punto di vista tecnico-giuridico vi erano molti dubbi sulla legittimità di un atto unilaterale dei Comuni. E infatti poco dopo, nel 2005, due pareri del Consiglio di Stato affermarono che un’eventuale estensione del diritto di voto doveva passare dalle aule parlamentari.
Oggi, in quasi tutti gli enti locali sono previste modalità di partecipazione degli stranieri. Alcuni hanno istituito organi dove siedono i rappresentanti delle associazioni degli immigrati; altri hanno delle “consulte” o “consigli” eletti direttamente dai cittadini stranieri, ma con poteri consultivi; altri ancora hanno un “consigliere aggiunto”, anch’esso designato tramite elezioni, che siede in consiglio comunale senza diritto di voto. Sono iniziative importanti, ma purtroppo non risolvono il problema: perché a mio avviso i residenti stranieri devono poter votare, con gli stessi diritti dei cittadini “autoctoni”. Ecco perché è importante la proposta lanciata dalla campagna “L’Italia sono anch’io”».
Questa intervista è stata pubblicata sul Corriere Immigrazione l’11 febbraio 2013