Non per odio ma per amore: intervista a Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani

8 Febbraio 2013 /

Condividi su

Non per odio ma per amoredi Barbara Romagnoli
Tamara Bunke, Elena Angeloni, Monika Ertl, Barbara Kistler, Andrea Wolf, Rachel Corrie. Due tedesche, una svizzera, una italiana, una americana, una argentina di origine tedesca. Sono le protagoniste di «Non per odio ma per amore. Storie di donne internazionaliste» [Derive Approdi, 2012] libro scritto a quatto mani da Paola Staccioli e Haidi Gaggio Giuliani.
Pagine costruite in un rimando continuo fra passato e presente, fra le vicende di queste donne e quello che significano oggi per noi, donne, e uomini, del futuro. Sono 6 storie accomunate dalla scelta di abbandonare i privilegi e le comodità della propria vita per andare a lottare a fianco di popoli in rivolta. Per ragioni varie, per realizzare il comunismo, per pacifismo, per l’esigenza di liberarsi e aiutare a liberare altre persone dal giogo dell’oppressione che come sappiamo ha tanti volti.
Non è un libro facile, non si legge tutto d’un fiato, ha bisogno di pause. Perché sono storie tanto belle quanto dolorose, che ci chiamano in causa sui nostri egoismi e timori di affrontare i conflitti, di prenderne parte e scegliere da che parte stare. Ma è un libro necessario, perché alimenta la memoria, radice preziosa per ogni battaglia futura.

Nella prefazione Silvia Baraldini scrive: è un libro passionale. Aggiungo: è un libro politico. Secondo voi è ancora possibile avere passione per la politica?
Paola: Credo di sì, anzi dico che non solo è possibile, ma è necessario, inevitabile. Se per politica però non intendiamo l’attività del governo o del parlamento, o il semplice voto alle elezioni dei cittadini, ma la partecipazione diretta e attiva al cambiamento, alle lotte per la difesa e la conquista dei diritti e per l’abolizione delle ingiustizie sociali. Sappiamo che oggi nel nostro Paese, ma anche a livello internazionale, le disuguaglianze vanno aumentando anziché diminuendo, le ricchezze si concentrano sempre più nelle mani di pochi. La volontà, la determinazione, ma anche la passione nel voler cambiare questo stato di cose mi sembra stia vivendo un nuovo positivo fermento. È necessario prendere in mano le redini del nostro futuro.
Haidi: Poiché non esistono più isole deserte e inesplorate, non possiamo fare a meno di vivere nel mondo, di far parte della società. Quindi di fare politica. Anche quando scegliamo (noi che abbiamo il privilegio di potere scegliere) che cosa e come mangiare facciamo politica, io credo. Per non parlare di tutto il resto. Per me la politica è la vita. E, nonostante tutto, la vita mi appassiona ancora. Non la mia, la vita dell’umanità.
Secondo voi come è cambiato l’internazionalismo nell’epoca della Rete e del mondo globalizzato?
Paola: La Rete, la velocizzazione delle informazioni ha offerto enormi opportunità di collegamento, di scambio a livello mondiale. Per tutti. Questo può essere utile anche per i contatti fra le lotte nei differenti Paesi. Così come per conoscere in tempo reale quanto accade in altre parti del mondo. La “virtualizzazione” permette però anche una maggiore manipolazione delle informazioni. Come accade ormai nel corso delle guerre, quando la mole di immagini che ci arriva dà l’impressione di vedere in diretta tutto ciò che sta accadendo, mentre nella realtà l’informazione è assolutamente “blindata”.
Un altro rischio è che di fronte a un flusso sempre maggiore di notizie che ci giungono da ogni angolo del mondo, tutto si confonda e appaia “uguale”, ma anche che, soprattutto fra i più giovani, si diffonda una tendenza a sostituire il reale con la virtualità. A pensare ad esempio che basta cliccare un “Mi piace” su facebook o condividere un’immagine o scrivere un post per partecipare, in qualche modo fare attività politica. È invece importante che ancora oggi l’iniziativa travalichi la virtualità, coinvolga i corpi, rimanga in quelli che sono i suoi luoghi storici, compresa la piazza.
Haidi: Questa domanda in effetti richiederebbe risposte molto complesse e argomentate. Bisogna prima capire come funziona l’informazione nell’epoca della Rete perché solo se siamo correttamente informati possiamo organizzare o partecipare ad azioni di solidarietà internazionale. Come dice Paola oggi siamo sommerse da una quantità enorme di notizie, spesso errate o volutamente false e devianti; quindi bisogna prima imparare a orientarsi, scegliere canali informativi di fiducia, poi scegliere come e insieme a chi tradurre in azioni concrete il nostro internazionalismo. Non è semplice…
Paola, è un caso che tu abbia scritto delle due tedesche e una svizzera del libro? O la tua vita si è intrecciata con quel pezzo di storia europea?
In parte si è intrecciata, in parte no. La prima delle donne che ho narrato, Monika Ertl, l’ho incontrata non molti anni fa. In un libro. Non conoscevo la sua storia, forse per questioni generazionali. Gli eventi che la vedono protagonista si sono svolti agli albori degli anni Settanta quando ero adolescente. Appena l’ho incrociata mi ha subito affascinato. La sua storia si intreccia con l’assassinio di Ernesto Che Guevara e del suo luogotenente Inti Peredo, con i crimini che il “boia di Lione”, il nazista Klaus Barbie, ha continuato indisturbato a commettere in Bolivia fino agli anni Ottanta, con la lotta di liberazione in America Latina. Monika ha vendicato il Che e gli altri guerriglieri uccidendo nel 1971 il colonnello dei servizi segreti boliviani che aveva dato l’ordine di assassinarli. Due anni dopo è stata uccisa a La Paz.
Diverso è invece il discorso per le altre due donne. Barbara Kistler, svizzera, di Zurigo, uccisa in Turchia, l’ho conosciuta nell’ambito dell’attività politica. E la voglia di scrivere questo libro per me è nata proprio dal fatto che desideravo scrivere di lei, ricordare la sua storia. Negli anni Settanta-Ottanta c’era un collegamento fra le differenti realtà europee comuniste, che agivano al di fuori dei partiti e dei sindacati della sinistra storica. Fra queste, c’erano anche organizzazioni, comitati che si occupavano dei temi del carcere e dei detenuti politici. A queste realtà hanno partecipato Barbara Kistler, prima di andare a combattere in Turchia con il braccio armato del Tkp(Ml) – il Partito Comunista turco (marxista-leninista) – e anche Andrea Wolf, in Germania, prima di andare nel Kurdistan turco con l’Armata delle donne del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan.
In realtà simili in Italia ho partecipato anche io all’inizio degli anni Ottanta. E così ho incrociato i loro percorsi. Negli anni Settanta in vari Paesi europei dalle lotte sociali, nelle fabbriche, dai movimenti e dai gruppi extraparlamentari erano nate organizzazioni clandestine. Lo scontro era allora molto duro. In Italia c’è stata anche la strategia della tensione con bombe e stragi. E soprattutto dopo il golpe cileno del 1973 si andava rafforzando in molti militanti della sinistra la convinzione che nessuna classe si arrende senza combattere e che quindi la conquista del potere non poteva avvenire pacificamente. I detenuti politici crescevano ed erano nati movimenti di solidarietà. Da un lato dei familiari, che si battevano contro le condizioni di detenzione disumane, dall’altro di militanti che ritenevano importante solidarizzare con i prigionieri politici in quanto rappresentavano l’inconciliabilità con il potere, con lo Stato.
Haidi, in queste ore Gaza è sotto attacco missilistico, secondo te come si può intervenire come pacifisti in questi momenti?
Come ha fatto Rachel. Come ha fatto Vittorio Arrigoni. Come fanno molte persone che non sono indifferenti a questa tragedia senza fine. Anche senza andare a fare interposizione con i propri corpi. Ognuno può mettere a disposizione un poco del suo tempo e delle sue capacità, anche nella città dove abita. In questi giorni in realtà si sono moltiplicate le manifestazioni di solidarietà con la popolazione palestinese in tutto il mondo; troppo deboli evidentemente, incapaci di smuovere i governi e le organizzazioni internazionali che continuano colpevolmente a tapparsi occhi, orecchie e bocca. Luisa Morgantini denuncia che mentre la Striscia di Gaza è sottoposta ai bombardamenti, in Cisgiordania c’è un aumento vertiginoso delle attività di colonizzazione: ci sono zone dove nel giro di poche ore vengono abbattuti alberi, spianati terreni e installati gli avamposti per la creazione di nuovi insediamenti con la protezione dell’esercito israeliano. Se accadesse in qualsiasi altra parte del pianeta la protesta sarebbe unanime ma il mercato e gli affari sono più forti della vita e dei diritti della gente.
Paola, puoi spiegare meglio cosa intendete quando dite che la militanza politica di queste donne è un atto d’amore? Come si coniuga questo con la lotta rivoluzionaria?
Come prima cosa vorrei ricordare che non tutte le donne narrate nel libro hanno scelto di combattere con le armi. Rachel Corrie, per esempio, è stata la vittima disarmata di una violenza brutale, uccisa nel 2003 a Gaza da una ruspa israeliana mentre con il suo corpo cercava di difendere le case palestinesi dalle demolizioni. Capisco che può sembrare una contraddizione intitolare un libro che parla anche di violenza politica «Non per odio ma per amore». E dire che le donne di questo libro hanno agito prevalentemente per amore.
Ma se come amore non consideriamo solo quello per un altro essere vivente, e pensiamo all’amore per la giustizia, la libertà dei popoli, ci accorgeremo allora che proprio questo sentimento ha portato le 6 donne narrate nel libro a rinunciare ai loro affetti, ai loro privilegi e comodità di occidentali. La loro scelta non è stata dettata da un interesse personale ma da un ideale. Sono andate in un altro Paese dedicando la vita al sostegno di una rivoluzione, di una lotta di liberazione. Questo può apparire sorprendente oggi, in un mondo intriso di egoismo, individualismo, fondato sulla disuguaglianza sociale. Ma questo secondo me, al di là del fatto che si possono condividere o meno le loro scelte, non può che chiamarsi amore. Amore per la libertà.
Haidi, il più grande delitto – scrivi – è quello che ricorda Gramsci: l’indifferenza. Come si fa a combatterla nel nostro Paese, dove sembra essere sempre più intrecciata a sentimenti di antipolitica e populismo?
È una lotta impari, ma non bisogna arrendersi. Mai.
Questa intervista è stata pubblicata sul blog di Daniele Barbieri e sul sito di Barbara Romagnoli

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati