di Maurizio Matteuzzi
La prima opera di logica della civiltà occidentale è, come è ben noto, l’Organon (letteralmente “strumento” di Aristotele. La prima pagina è dedicata alla distinzione tra omonimi, sinonimi, paronimi. Per quanto ne capisco, Aristotele ci dice che, mentre sulla sinonimia si fonda la scienza analitica (en passant: il significato di sinonimia di Aristotele è tutt’altro che il nostro), l’omonimia viceversa rappresenta un pericolo e una situazione da evitarsi.
Ora, facendo un salto di soli duemilaquattrocento anni circa, siamo di fronte a un caso di sospetta omonimia piuttosto inquietante. In attesa delle fatidiche elezioni politiche incombenti, dobbiamo registrare una presenza massiccia, quasi ingombrate, di tali “moderati” praticamente in tutti i grandi schieramenti politici. Berlusconi si propone ogni mezz’ora in TV come capo dei “moderati”; bÈ, “capo”, forse presidente, padrone, feudatario, finanziatore non so insomma, visto che il ticket da pagare a Maroni è stato quello di non essere candidato premier, per dare alla lega un’ancora cui attaccarsi per salvare almeno una fetta della faccia, rispetto alle precedenti dichiarazioni fortemente antiberlusconiane.
E così un improvvido lettore qual è il sottoscritto ne dedurrebbe che i “moderati” sono quelli del partito (?) di Berlusconi. Ma ecco che Monti sostiene che la sua “agenda” è rivolta trasversalmente ai “moderati”, e lo stesso dicono i suoi sostenitori: Fini parla di “rassembrement” dei moderati, e certo non si astiene Casini dal dire che suoi sono i “moderati”, e guai a chi glieli tocca, eccetto Monti, e rivendica una forma di prelazione storica sulla moderatezza/moderazione. Il povero studioso delle cose linguistiche comincia ad avere qualche crampo mentale: ma dove stanno ‘sti “moderati”? Fosse finita qui.
Il PD parla di una sua anima “moderata” come costitutiva del suo stesso ubi consistam, e par distinguere al suo interno una significativa sottoclasse di “moderati”. Ecco allora il corto circuito. Confesso, non capisco più. Cosa vuol dire “moderato”? Sarò mica per caso un “moderato” anch’io? De te in fabula narratur?
La questione, come si vede, è piuttosto intricata. Omonimi si dicono quegli oggetti che hanno in comune il nome soltanto, mentre hanno diversi discorsi definitori, applicati a tale nome. Per esempio, sia l’uomo che un certo oggetto disegnato si dicono animali. Così ci spiega Aristotele (Cat., 1a). Cioè: dico che è “animale” tanto un uomo vero quanto la rappresentazione iconica che se ne dà in un disegno. “Animale” è dunque “omonimo”, vale a dire “equivoco”. Allora pare legittima la domanda: ma dietro a questo dilagare di “moderati” non ci sarà, appunto, un caso di omonimia? E non sarà forse il caso di scioglierlo, tanto per capirci qualcosa, vecchio sport sempre meno praticato?
Al solito, per acclarata deformazione mentale, prendo l’abbrivio dall’etimo, che in questo caso è molto semplice: “moderato”, dal participio passato del latino moderari, a sua volta da modus, nel senso di “misura”, “limite”, “contenimento”. “Moderato” è dunque colui che accetta un limite, senza allargarsi troppo, che si inscrive in una “misura” ritenuta quella giusta, accettabile dai più. Moderatus, come participio passato, avrebbe una valenza passiva, con un sottinteso riferimento a un certo limite imposto dall’esterno. Ma essendo il verbo moderari deponente, qui si potrebbe aprire un dibattito, sul quale sorvoliamo.
A meno che, ed è la spiegazione più probabile, il latino non usi il deponente a surrogare il medio greco, forma che in latino non c’è, con riferimento allo svolgere l’azione “per se stessi”. Un “moderato” sarebbe dunque uno che si contiene nei giusti limiti, che si astiene dagli eccessi, che si muove entro precise misure, senza travalicarle. Simpatici, quindi, i “moderati”: meglio averne, e tanti, sono in definitiva quelli che non rompono i testicoli. Meglio di così; facciamone incetta subito.
Tuttavia, tuttavia… Ecco di nuovo il serpente tentatore, che dalla sua lingua biforcuta ci spruzza un po’ di veleno. Tuttavia stretto parente linguistico è “modesto”: stesso etimo: sincope da modesatus, semplice variazione linguistica di moderatus. Cavoli, ci siamo accaparrati i modesti, non è un granché. Perché l’essere modesto può rimandare a un vizio o a una virtù: certo, se Dante a dire che conosce abbastanza l’Italiano, o Kant a dire che capisce abbastanza la filosofia, o Giotto a dire che dipinge abbastanza bene, saremmo di fronte a una modestia virtuosa, anzi, a quella che chiamiamo una “falsa modestia”. Ma se uno raggiunge risultati modesti, se io giudico questa tesi di laurea modesta, cosa vuol dire? Più o meno che siamo di fronte a un modo delicato, e ricorriamo a una perifrasi, per evitare di usare la parola “sterco”, di cui forse parlerò in altra occasione (certo in proposito le occasioni non mancano…).
Ecco allora: dove stanno precisamente, e cosa ce ne dobbiamo fare, di questi “moderati”? Che siano modesti in senso virtuoso, o in senso coprino? That is the rub, direbbe il principe di Danimarca; dove, come si sa, c’è del marcio; invece qui…
La linguistica qui non mi aiuta più; ma mi soccorrono la pancia, e il criterio di prudenza. Forse, dopotutto, non essendo certi di che tipo di modestia si tratti, meglio i modesti lasciarli agli altri…