di Alberto Sebastiani
“Il manifesto” non deve morire. Quindi, secondo Valentino Parlato e tanti lettori, serve un nuovo piano editoriale, raccogliere fondi, acquistare la testata e ripartire, magari non come quotidiano, magari come settimanale, o in altra forma, ma ripartire. Parlato ha lasciato “Il manifesto” (era tra i fondatori del gruppo nel 1969, con Rossana Rossanda, Lucio Magri e Luigi Pintor) nel dicembre scorso, perché in disaccordo con il piano di rilancio dell’attuale redazione, ma non sembra avere alcuna intenzione di abbandonare la lotta per il “suo” quotidiano. Sa che ha avuto tante crisi, e che stavolta è davvero brutta, ma «siamo come Anteo: ogni volta che cade a terra riprende forza», dice alla Libreria Irnerio Ubik, giovedì scorso, presentando La rivoluzione non russa. Quarant’anni di storia del Manifesto, a cura di Giancarlo Greco (Manni). Un libro che racconta dall’interno, tra riflessioni e articoli, com’è nata e come si è consolidata l’idea di un quotidiano comunista e pacifista, i cui editoriali e prime pagine hanno fatto storia.
Ma del passato si è parlato poco, perché il presente incombe. Così la presentazione, introdotta da Leonardo Tancredi del Circolo “Il manifesto” di Bologna, diventa un’assemblea, il racconto di un nuovo orizzonte possibile per il quotidiano comunista che nel 2013 compirebbe 42 anni, liquidatori permettendo. Parlato ne discute a Bologna perché qui c’è un terreno fertile. Da quando si è aperta la crisi del giornale il Circolo organizza incontri, cene di autofinanziamento e pensa alla costruzione di un soggetto collettivo per acquistare la testata dai liquidatori, evitare il pericolo di farla passare a privati, e gestire il rilancio. Con altre realtà nazionali ha istituito l’associazione “Il manifesto in rete”, e ora sostiene l’idea di una proprietà collettiva di lettori, Circoli del Manifesto e giornalisti, «iniziativa – dice Sergio Caserta del Circolo bolognese – che ha il sostegno di firme storiche della testata come la Rossanda, Loris Campetti, Angela Pascucci, Galapagos, Marco D’Eramo, Marina Forti, Gabriele Polo, Angelo Mastrandrea, Astrit Dakli e i collaboratori legati al sito “Manifestiamoci”».
parlato-al-manifestoServe un progetto editoriale che sorregga la volontà di acquisto. Ecco così la classica domanda: “che fare?” In fondo, secondo il giornalista Daniele Barbieri, il libro di Parlato offre domande che indicano una linea: «1) il legame tra la tradizione comunista e i nuovi movimenti; 2) come cambiare la sinistra». Sono domande che Parlato si poneva già nel 1979, e ora bisogna capire se sono ancora attuali. «Sono problemi angosciosi – dice Parlato – D’altronde nel libro ho raccolto una storia lunga 40 anni che affronta i problemi del mio rapporto col giornale, ma anche del paese e della sinistra. Siamo una realtà dissolta che richiede una ricostruzione culturale e politica». E qui entrerebbe in gioco “Il manifesto”, oggi: dovrebbe avere un ruolo di ricostruzione, «ma nel giornale siamo divisi, tra chi pensa a legarsi alla cronaca del giorno, cioè del Parlamento, quindi di Roma, e chi, come me, pensa a un giornale di approfondimento e riflessione, internazionale, attento alla crisi». Proposta che tanti apprezzano, perché, come dice Maurizio Pulici: «oggi c’è un attacco senza precedenti alla legislazione del lavoro, ma manca un ragionamento, una proposta che unisca, una cultura della democrazia che vada al di là della domanda “per chi voto?”».
Anche per Parlato «sembra esserci una situazione eversiva: una perdita del valore della democrazia nello Stato, nella società, nei partiti», ma il mito di Anteo incoraggia a guardare avanti, specie pensando che «voi lettori siete la madre terra». C’è però discussione anche su come la terra debba comportarsi: «non è la prima volta che i lettori aiutano economicamente, ma i soldi sono stati gestiti male, più volte», accusa Barbieri. «È vero», ammette il fondatore del Manifesto, ma guarda avanti con Anteo, e non ha dubbi sul ruolo che la testata possa avere ora: «deve dare battaglia nel paese a partire dai circoli, con un dibattito pubblico e uno scontro interno per costruire un programma e rilanciarsi». In quest’ottica s’inserisce il progetto di acquistare la testata, «con fiducia, speranza, impegno», e di lanciare una raccolta fondi: «i soldi saranno congelati e usati per l’acquisto, ma se non avverrà torneranno indietro», come quasi sempre nel crowdfunding.
A meno che… a meno che non si riesca ad acquistare la testata e si decida di fondare un nuovo foglio informativo, on line o cartaceo, quotidiano o periodico, e allora chissà che quel tesoretto raccolto non si decida – con i finanziatori – di usarlo per una nuova avventura. Ora sono in parecchi al lavoro, in assemblee e on line, perché il dado è tratto, Anteo vuole rialzarsi, e se si chiamerà ancora “Il manifesto” bene, ma anche se dovrà prendersi un altro nome promette di dare battaglia lo stesso. Perché “la rivoluzione non russa”.
Questo articolo è stato pubblicato sull’edizione di Bologna del quotidiano La Repubblica