di Loris Campetti, Mariuccia Ciotta, Astrit Dakli, Ida Dominijanni, Sara Farolfi, Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Doriana Ricci, Roberto Silvestri, Roberto Tesi (Galapagos), Miriam Ricci e Marco Cinque
Il manifesto è stata un’avventura straordinaria. L’invenzione di una nuova forma della politica, quando ancora nessuno immaginava che politica e comunicazione sarebbero diventate la stessa cosa. L’esercizio quotidiano di un pensiero critico, in un sistema dell’informazione che di pensiero critico non abbonda. La tessitura incessante di una rete di relazioni ricchissima, con i lettori, i collaboratori, i sostenitori. La costruzione di uno spazio in cui un giovane sconosciuto, un operaio di Marghera, un collettivo femminista erano autorizzati a parlare quanto un intellettuale blasonato.
La pratica quotidiana del confronto, talvolta ruvido ma sempre interessato alle differenze in gioco, fra la generazione dei fondatori espulsi dal Pci, quella del ’68, del ’77 e del femminismo, quella della Pantera e di Genova. Il luogo di frontiera libero da dove abbiamo avuto il privilegio di attraversare, raccontare, interpretare quarant’anni densissimi di storia politica e culturale del mondo e della sinistra.
Tutto questo, e molto più di tutto questo, sotto la testatina «quotidiano comunista». Che non è mai stata, per nessuno di noi – a cominciare da Rossanda e Parlato, da sempre schierati per un giornale di ricerca e di innovazione, non di partito ma di parte – un’etichetta identitaria, né un programma ideologico, né tantomeno una tessera. È stata e resta, fondamentalmente, il segno di due cose.
La prima: che l’orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell’immaginario. La seconda: che fra quella testatina del giornale e la vita del gruppo che lo produce debba esserci una qualche coerenza. Non riconducibile solo alla formula proprietaria, pure importantissima, e all’egualitarismo salariale. Bensì ad uno stile delle relazioni fra noi, consapevole che quel «noi» è un soggetto prezioso e delicato, da trattare con la stessa cura dell’oggetto-giornale da mandare in edicola ogni giorno. Non dunque, come recita uno slogan oggi caro alla Direzione, un manifesto «oltre le nostre persone», ma le nostre persone nella scommessa del manifesto.
Lettrici e lettori, collaboratrici e collaboratori ci chiedono perché abbiamo mollato. Ce lo chiedono con dispiacere, talvolta sorpresi perché non capiscono, talvolta irritati come se avessimo tradito un’aspettativa o una certezza, una missione o un dovere di resistenza. Hanno qualche ragione, perché avremmo dovuto dire più, e qualche torto, perché anche i silenzi parlano, ad esempio di un tentativo di non inasprire i toni, o del bisogno di elaborare una perdita. La risposta, comunque, è semplice: perché poco o nulla di quello che per noi è stato ed è il manifesto sopravviveva ormai in via Bargoni. Il che non significa pensare che il manifesto sia finito per sempre. Significa separarsi da un manifesto che in questo momento non è più quello che, fino all’ultimo, ci siamo spesi per tenere in vita e costruire.
Quando ci si separa, si sa che spesso volano gli stracci, e con gli stracci molte bugie. Non staremo a contestarle o smentirle una per una. Su qualcuna però non possiamo tacere.
Non è vero che siano emerse fra noi posizioni politiche e di politica editoriale incompatibili. Né che ci sia stato uno scontro tra fautori di un “giornale-partito” contro un “giornale-giornale”. È vero piuttosto che negli ultimi anni è stato programmaticamente eliminato il terreno stesso del confronto politico, culturale ed editoriale al nostro interno. Qualsiasi discussione è stata ritenuta superflua e perfino ostativa alla fattura di un giornale sempre più omologato, al di là dei singoli contributi pure spesso eccellenti, alla stampa mainstream, alla sua agenda, alle sue tematizzazioni; sempre meno sperimentale nella formula editoriale (rapporto carta-online, rapporto quotidiano-supplementi etc.); sempre più ridotto da intelligenza collettiva a macchina produttiva veicolo di interventi esterni. Questa ostinata chiusura della discussione ci ha oltretutto impedito di confrontarci con il dato duro di un forte calo delle vendite, sempre attribuito genericamente alla crisi della carta stampata e mai analizzato come sintomo specifico di una perdita di autorevolezza e di efficacia della testata.
Non è vero che la liquidazione coatta sia stata imposta dal Cda uscente, segnatamente nelle persone del suo presidente Valentino Parlato e dell’amministratore delegato Emanuele Bevilacqua. La liquidazione era l’unica opzione possibile per evitare la procedura fallimentare, tutelando i diritti e gli ammortizzatori sociali dei soci-lavoratori; lo sapevamo tutti, e l’abbiamo approvata tutti, salvo un paio di eccezioni. Essa non ci avrebbe impedito di tentare fin da subito – ormai un anno fa – di mettere a punto un piano di riacquisto della testata, con l’aiuto dei lettori e dei circoli, e di ridefinizione della cooperativa e della redazione secondo criteri organici a un piano di riforma del prodotto: per aggiornarne e rilanciarne il senso politico-editoriale, che si era appannato negli ultimi anni, e per risanare una gestione economica sbagliata, di cui tutti portiamo qualche responsabilità.
Purtroppo è stata seguita un’altra strada. Nessun piano di riacquisto, mentre la cooperativa e la redazione venivano lasciati a un’emorragia spontanea di competenze professionali e di funzioni, senza nulla fare per tamponarla, e anzi giocando su sottoutilizzazioni e prepensionamenti – questi ultimi nient’affatto «scelti», come ora si dice, bensì accettati per ridurre i costi del lavoro, e per giunta additati come posizioni di privilegio e fatti oggetto di una brutta campagna «rottamatoria» da parte dei redattori più giovani – per sfrondare il giornale da posizioni non allineate.
Non è vero dunque che la nuova cooperativa nasca dalla differenza algebrica fra l’innocenza e la buona volontà di quanti «hanno tenuta aperta la casa» e «il menefrighismo di chi ha lasciato il giornale in un momento difficile». Essa è piuttosto il frutto dell’avocazione a sé, da parte della Direzione e delle rappresentanze sindacali, di funzioni di rappresentanza della proprietà collettiva del giornale che non sono di loro pertinenza. Fino al rifiuto di eleggere un organismo garante della trasparenza del delicato processo di transizione ed eventualmente di vendita della testata.
Altro che menefreghismo, esili volontari e porte sbattute. Su questi e su altri punti, di metodo e di sostanza, abbiamo continuato fino alla fine a proporre strade alternative e a dare battaglia, senza mai far mancare il nostro contributo gratuito di scrittura malgrado i dissensi, peraltro pubblicamente espressi sulle pagine del giornale ma mai raccolti, sempre respinti e più volte denigrati.
Sono queste le ragioni che ci hanno persuasi, non senza dolore, a non partecipare alla formazione della nuova cooperativa, di cui non ci è chiara né la prospettiva politico-editoriale né la discontinuità amministrativo-gestionale. E che nasce da una consapevole messa in mora, per non dire da un sostanziale disprezzo, di quello stile delle nostre relazioni che dicevamo all’inizio. Se ne può trarre la conclusione che noi ci siamo allontanati dal manifesto: ma solo dopo che il manifesto, «questo» manifesto, si era allontanato da noi. Quanto al domani, è tutto da scrivere.