di Marco Ligas, il Manifesto Sardo
Che succede al Manifesto? È la domanda ricorrente di tanti amici e sostenitori dopo le dimissioni di alcuni vecchi compagni della redazione, da anni impegnati nella preparazione del giornale. La decisione di Rossana Rossanda ha reso ancora più drammatica la situazione del quotidiano accentuando lo sconcerto di tanti. Non ho risposte certe a questa domanda, mi limito perciò ad esprimere le mie opinioni.
Dopo l’arrivo dei liquidatori (febbraio) si è creato un clima di forte preoccupazione sia all’interno del collettivo sia fra i sostenitori del Manifesto. I circoli (che possiamo definire come la rete diffusa del giornale, presente in quasi tutte le regioni del paese) si sono posti subito il problema del come evitare la chiusura del giornale. Hanno promosso diversi incontri per esaminare le possibili soluzioni, hanno fatto ciò nella consapevolezza di far parte dell’Area del Manifesto. Insomma la sopravvivenza del Manifesto, è stato detto, non riguarda solo la sua attuale redazione ma tutti coloro che lo hanno sempre sostenuto, sin dal 1971. È con questa ispirazione e con questo senso di appartenenza che hanno prodotto un’ipotesi di statuto di società cooperativa, costituita tra lettori e circoli, giornalisti, poligrafici e collaboratori, che potesse riacquistare o partecipare al riacquisto della testata del Manifesto appena posta in vendita a fine liquidazione.
Da parte della redazione ho colto sempre una diffidenza nei confronti dei circoli, talvolta persino ostilità. Il Manifesto è di chi lo fa tutti i giorni, è stato detto, come se i circoli volessero esautorare la redazione o comunque privarla della sua autonomia professionale. Non escludo incomprensioni, almeno nella fase iniziale del confronto tra circoli e redazione, ma in realtà non c’è mai stata da parte dei circoli alcuna intenzione di far ciò, solo l’esigenza di sottolineare un principio fondamentale: il Manifesto è sempre stato e deve continuare ad essere qualcosa di diverso e anche di più di un semplice quotidiano; non c’è alcun giornale nel panorama editoriale italiano che funziona come il Manifesto, che mantiene in molte regioni del paese una rete di sostenitori che lo aiutano quando si trova in difficoltà, che si avvale di collaboratori non stipendiati, di redattori disponibili ad accettare retribuzioni modeste.
Sicuramente la diffidenza mostrata dalla maggioranza del collettivo ha ostacolato l’individuazione di uno (o più) percorsi per uscire dalla crisi. Per questa ragione c’è un ritardo grave nel lancio della campagna promozionale per poter acquistare la testata quando i liquidatori per legge saranno costretti a cederla. Non so se sarà possibile acquistarla senza un sostegno (sotto forma di prestito che consenta la piena autonomia del giornale) di un finanziatore esterno. Sappiamo che queste operazioni non sono esenti da rischi o comunque da condizionamenti. Dovremo usare la massima attenzione nel programmare queste aperture, soprattutto tenerci lontani da finanziatori di dubbia onestà.
Intanto, tra diffidenze e ritardi, si è guastato ulteriormente il clima interno al collettivo. Le dimissioni di cui parlavo inizialmente lo dimostrano. Forse a causa delle preoccupazioni della redazione per l’incertezza del proprio futuro, si è accentuata una chiusura inconsulta al suo interno che sta provocando vere e proprie censure. Così gli interventi dei compagni dei circoli spesso non vengono pubblicati, le separazioni dai redattori che hanno lavorato per decenni al Manifesto vengono vissute con una superficialità inquietante, la stessa decisione di Rossanda è valutata come un fatto di ordinario ricambio; non a caso è stato detto che anche in passato altri compagni illustri (Natoli) hanno lasciato il Manifesto, dunque (implicitamente) emerge la domanda: perché drammatizzare sull’allontanamento di Rossanda?
Come non bastasse, altri compagni del collettivo hanno deciso di allontanarsi dal giornale per incompatibilità con la redazione. Ritengo tutto ciò molto grave: un insieme di comportamenti innaturali per il Manifesto; è per queste ragioni che considero ormai indispensabile un cambio nella gestione del giornale: per dirla senza eufemismi le dimissioni dell’attuale direzione e della redazione. È la condizione perché il Manifesto possa affrontare la fase due della propria storia con slancio e una credibilità rinnovata.
Naturalmente non intendo sottovalutare gli aspetti relativi al nuovo progetto politico-editoriale del Manifesto. Purtroppo questo aspetto, che non è meno importante del precedente, viene sempre lasciato ai margini nei nostri dibattiti. Quando riusciamo ad affrontarlo lo facciamo sempre in modo generico. Così se decidiamo di parlare di pluralità ed eterogeneità presentiamo questi due aspetti con disinvoltura come elementi qualificanti che garantirebbero di per sé un allargamento dell’area dei lettori. Non diciamo molto però degli indicatori che dovrebbero qualificare la pluralità e l’eterogeneità. In questo modo lasciamo intendere che il Manifesto potrebbe sostenere analisi anche differenti tra loro, ciò per rispondere a esigenze diverse dei nostri lettori. Ma è proprio questo un aspetto che il Manifesto dovrebbe curare?
Io non lo credo, penso piuttosto che il quotidiano, come ricordava Rossanda, dovrebbe 1) mantenere un legame con la sua origine, 2) che il nuovo collettivo di lavoro ci creda e 3) ne sostenga l’ispirazione. La conquista di un’area di lettori più consistente è indispensabile. È necessario perciò verificare ripetutamente la partecipazione di chi segue (compra) il giornale, senza però stravolgerne il ruolo. Questi obiettivi non sono facili da realizzare; la crisi che vive la sinistra non ci aiuta. Però è possibile (direi necessario) svolgere un lavoro politico e culturale senza calcoli, rivolto soprattutto a quell’area del paese che non intende subire ancora le conseguenze della crisi provocata da banche e padronato. Dovremmo fare più inchieste, come dice ripetutamente Valentino Parlato, e capire meglio le condizioni di vita di tante persone che subiscono la povertà e vengono relegate nell’area della marginalità.
Questi processi avvengono nel nostro paese, in modo diverso nelle singole regioni, nel sud e nel nord, ma anche in Europa dove nessuno parla più di lotta comune contro un capitalismo sempre più aggressivo. Forse dovremmo occuparci di più di queste cose.
Questo intervento è stato pubblicato sul sito del Manifesto Sardo il 29 novembre 2012