di Claudio Magliulo
Inizio con una breve nota personale (me lo perdonerete, perché penso sia utile a capire chi siamo e da dove veniamo). Sono un giornalista professionista, esattamente da un anno. Negli ultimi due anni e mezzo ho scritto circa 50 articoli per il manifesto (non li ho mai contati di preciso, non essendo mai stato retribuito per scriverli). Metà di questi li ho scritti durante il mio mese di stage nel giugno 2010.
Una palestra di giornalismo e di impegno politico per la quale resterò per sempre grato a questo giornale e in particolare ad alcune persone che mi hanno insegnato molto: Marina Forti, Michelangelo Cocco, Stefano Liberti, Maurizio Matteuzzi, Tommaso Di Francesco. Ho continuato a scrivere mentre il giornale era in crisi, ben sapendo che non sarei mai stato pagato. L’ho vissuta come la mia parte per sostenere il giornale in crisi: dedicare il mio tempo di vita e di lavoro mentre altri investivano 50/100/1000 euro, cifre che non avevo e non posso avere, precario come sono come quasi tutti i miei coetanei.
Faccio fatica a raccontare cosa provavo quando ho messo piede al Manifesto, quel 3 giugno del 2010, per la prima volta. Lavorare al manifesto era più di un sogno, un progetto di vita; vedersi aprire la porta di via Bargoni, quel giorno, è stato quindi come tornare a casa. Il manifesto, questo è il fatto, è sempre stato quanto di più vicino ad una famiglia politica io abbia mai conosciuto. Mai avuto tessere di partito, affacciandomi alla politica nel mondo post-Genova. Mai fatto campagna per nessuno.
Da febbraio di quest’anno sono stato tra i più attivi sostenitori di un impegno forte dei circoli, sono intervenuto in numerose assemblee nazionali, ne ho anche moderata una a Bologna. E ho sempre detto la mia, come cercherò di fare qui, ancora una volta. Non mi sento un traditore, perciò, nell’affermare che qualcosa si è rotto. Gli abbandoni “eccellenti” non sono che l’ultimo atto di un logoramento costante e straziante che ha visto quella che nei circoli si chiama ormai “via Bargoni” allontanarsi progressivamente e irreparabilmente dal resto del mondo del manifesto. Che non è fatto solo dei 35 superstiti ancora coraggiosamente ma sordamente intenti a realizzare il quotidiano.
Si tratta di un mondo vasto, che include decine di collaboratori, importanti e meno importanti, professionisti e non, accademici, intellettuali, semplici attivisti in luoghi “chiave”, come lo era Vittorio Arrigoni a Gaza. Alcune di queste persone si sono organizzate da tempo in Circoli di sostegno al manifesto. Sin da subito abbiamo inteso questo impegno come qualcosa di diverso dal passato finanziamento a fondo perduto. Abbiamo inteso i Circoli come una sorta di comitati di base del manifesto, una base ludico-leninista (ludico perché ci siamo anche diveriti, leninista perché abbiamo cercato di organizzare un sostegno efficace e orientato al risultato) per un giornale-partito: una fonte di dibattito, critica, consiglio, aiuto, un punto di riferimento, un collettore di istanze dei lettori da portare alla redazione, una cinghia di trasmissione con i territori. Per questo abbiamo fondato ed io ho personalmente coordinato per i suoi primi mesi, un sito, quello del manifestobologna.it, che sta diventando ormai un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia seriamente discutere del futuro di questo giornale.
L’errore dei Circoli
Se c’è un errore che i circoli hanno commesso, in buona fede, è stato un eccesso di ottimismo e di fiducia nella capacità di cambiare da parte della redazione e nella nostra capacità di accrescere esponenzialmente le copie vendute in edicola. Fin dalla prima assemblea i dati parlavano chiaro e ci dicevano che per “salvare” il manifesto sarebbero servite non solo 25mila copie vendute ogni giorno in edicola (queste sarebbero servite solo ad andare in pareggio), ma altre migliaia per iniziare a scalfire la montagna di debiti accumulati negli anni delle vacche grasse. Potevamo lavorare da subito alla raccolta fondi per ricomprare la testata e ad un dibattito sul manifesto 2.0, che solo faticosamente e in queste settimane è partito. Ma, ormai, al contrario di quanto sostiene Norma Rangeri, sapendo di mentire o chiudendo entrambi gli occhi di fronte alla realtà, il tempo è veramente scaduto.
Per mesi i circoli hanno cercato di aiutare la redazione in ogni modo, aiuto che è sempre stato visto dalla gran parte di via Bargoni come una indebita ingerenza. Emissari del giornale sono venuti a parlarci per capire chi fossimo e che volessimo. Come fosse in dubbio il fatto che l’unico obiettivo per cui stavamo impegnando il nostro tempo e le nostre scarse risorse fosse il salvataggio a lungo termine del giornale.
Sottolineo l’espressione “a lungo termine”, perché è determinante.
Non si tratta più, e non è mai trattato, per quanto mi riguarda, di contribuire all’ennesimo salvataggio in zona Cesarini di un giornale evidentemente inefficiente e malgestito, con una linea politica ballerina e insoddisfacente e scarsa capacità di adeguarsi al contesto del 21° secolo.
A tutte le critiche e le osservazioni circostanziate che lettori, membri dei circoli e collaboratori hanno fatto a proposito di come il giornale è stato gestito come azienda editoriale e come motore politico, è stata sempre opposta la penuria di risorse come circostanza esimente per la redazione.
Ma il vittimismo dei fondi pubblici tagliati d’amblé (figuriamoci, lo si sapeva da anni che il Fondo per l’Editoria sarebbe finito sotto la scure di questo o quel governo, ma evidentemente qualcuno a via Bargoni ha continuato a pensare di poter attivare qualche canale politico diretto per negoziare l’ennesima eccezione) nasconde una realtà dolorosa che andava affrontata da tempo, almeno due anni fa, quando si è capito che questa crisi era la crisi.
Non voglio entrare per l’ennesima volta nella diatriba che oppone via Bargoni ai circoli, con le loro proposte e il voto dell’assemblea del 4 Novembre a Roma in cui si chiedeva di procedere con la costituzione di una cooperativa in grado di raccogliere fondi e ricomprare il manifesto. Di questo si è già scritto ampiamente. Mi limito a segnalare che il continuo procrastinare, da parte della redazione, un confronto vero e una progettazione condivisa e discussa assomiglia pericolosamente ad un “fare melina”, nell’attesa che la scadenza di fine anno giunga, cogliendo, come è ovvio, tutti impreparati, e costringendo i lettori ad un ruolo ancillare di mero sostegno economico ad un nuovo-vecchio manifesto a proprietà privata.
C’è grossa grisi per tutti
Il tempo è scaduto, lo dico con profonda tristezza ed amarezza. E persino il colpo di coda di una mail privata e personale (sopra o sotto le righe importa poco) inviata da Marco D’Eramo e pubblicata sul giornale come lo scalpo di quella che fu una delle penne di punta del giornale, fa parte di un epilogo osceno, che si sta consumando sotto i nostro occhi increduli e insofferenti.
All’attuale direzione e redazione va tutta la mia comprensione umana per la fase difficile. Ma mi permettano di dire che non sono gli unici a soffrire, che stiamo soffrendo tutti, che molti dei lettori del manifesto non hanno più i soldi per comprarlo perché in cassa integrazione o disoccupati, altri non li hanno mai avuti (penso agli studenti e alle nuove leve di questa macchina folle che è il capitalismo al tempo della crisi, tutte persone degnissime che nella maggioranza dei casi non avrebbero nemmeno il tempo di sedersi a pensare e a leggerlo, quel benedetto giornale). Mi permetto di dire che chiudere occhi ed orecchie alle proposte e ai progetti di cambiamento per poi lamentarsi perche la nave affonda, è un atteggiamento che non ci si può più permettere.
Il tempo è scaduto, davvero. L’incantesimo è rotto, e questa storia quarantennale sta affondando in un clima da basso Impero poco consono al rigore analitico e alla passione politica che hanno fatto del manifesto un unicum irripetibile nella storia del giornalismo, non solo italiano.
Ora tocca a noi, tutti noi, collaboratori, lettori, simpatizzanti, fuoriusciti, riprendere in mano i cocci e ricostruire un nuovo giornale. Cambia poco, ormai, che la cooperativa che oggi edita il manifesto affondi placidamente nelle secche di una proprietà privata il cui fine sarà con estrema probabilità quello di incamerare qualche credito ancora pendente da parte dello Stato e traghettare la redazione per altri due anni verso una dolce dissoluzione.
Poco importa che questa testata portata con orgoglio da lettori di ogni età per decenni, finisca per essere dimenticata.
Una nuova forma dell’organizzazione politica: un giornale (quasi per niente di carta)
È giunto il momento di progettare il futuro.
Ben venga la raccolta di fondi che i circoli ipotizzano nel costituire una nuova cooperativa. Ma questi fondi siano utilizzati per finanziare una redazione leggera, ben bilanciata tra carta e web, orientata al futuro e al racconto, che si sporchi le mani con la cronaca e l’inchiesta e che sappia aprire spazi di comprensione a chiunque ne legga gli editoriali e gli approfondimenti.
Si parla spesso del manifesto come di un giornale-partito, spesso invocando una maggiore coerenza politica. Coerenza non si traduca però in linea politica. Non mi piace l’idea di un giornale plurale che come un condominio del mio amato Sud veda affacciarsi ai cento e mille balconi di carta cento e mille megafoni di idee incompatibili tra loro, in una cacofonia di messaggi senza progetto e analisi condivisa. Piu che un giornale plurale serve un luogo aperto al dibattito e alla discussione, ma capace anche di sintetizzare le diverse visioni e soprattutto di disegnare uno scenario condiviso e fornire attrezzi per interpretare (e magari smontare) i meccanismi della precarieta, dell’esclusione, dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’uomo sull’uomo. Con l’unica vera bussola dell’eresia, la cifra fondante di questo giornale, che significa anche costruzione di idee e non semplice giustapposizione di opinioni.
Fino a poco fa il manifesto è stato maestro nell’indagare ciò che avveniva nella società (un po’ meno nell’economia), con strumenti e approcci diversi, ma con l’unico fine di sovvertire questo stato di cose, di costruire le basi di una comprensione profonda e di una proposta politica collettiva.
Un comunismo del 21° secolo è possibile, ed è l’unico orizzonte ideale per cui vale la pena continuare a dissanguarsi, a studiare, a non gettare la spugna dell’analisi e del racconto. Il mio invito è di sfruttare questa crisi della forma-partito (ma anche della forma-movimento, come argomenta Benedetto Vecchi). Inventiamo un giornale che riempia il vuoto spinto creato dal crollo repentino dei partiti di massa, opponendo al fluido nulla offerto dal grillismo o al classico rapporto di identificazione sentimentale con un leader spettacolarizzato (che il centro-sinistra, se esiste, ha introiettato molto bene, lo abbiamo visto nel dibattito stile X-Factor per le primarie), una nuova forma dell’impegno politico, un giornale rizomatico, che faccia il suo mestiere di informare e che lavori per far emergere dal caos un progetto politico di cambiamento della società, una rivoluzione vera, non di carta nè che viva solo nei server islandesi di alcuni grandi gruppi americani.
Durante un’assemblea, molti mesi fa, ho rivolto un invito ai circoli e alla redazione del manifesto: apriamo un cantiere per la rifondazione del manifesto. Discutiamo non solo di contenuto, ma anche di forma. Di come funziona questa azienda editoriale, di come tagliare su alcuni costi deliranti e risparmiare risorse per le persone, dentro la redazione ma soprattutto fuori.
Questa proposta, come tutte le altre, è caduta nel vuoto, e pare quasi uno scherzo l’annuncio di oggi in cui si dice che un gruppo di lavoro dovra elaborare un piano per la costituzione della nuova cooperativa, senza mai citare i circoli in un’intera pagina.
Signori, mentre voi avanzate a passo di gambero, la nave sta affondando. Se si tratta di guardarla affondare dalle scialuppe di salvataggio, senza poter piú fare nulla, almeno dirigiamo queste scialuppe e le nostre residue forze verso un approdo, da inventare, invece che restare a vegliare il fantasma di un’idea che gorgoglia scomparendo tra i flutti.
Le idee ci sono: alcune le ho riassunte in un progetto ipotetico per un manifesto rifondato, mesi fa. Se ne possono tirare fuori molte altre. E il secondo errore dei Circoli, a mio parere, è stato proprio trascurare questa dimensione, lasciando che il dibattito si incagliasse sulla questione della formula proprietaria, determinante e propedeutica, certo, ma non sufficiente a smuovere i lettori e i collaboratori delusi.
Nel mio editoriale di apertura per il manifestobologna.it, scrivevo che quello non era “un requiem per Il Manifesto, né un ultimo canto del cigno. Non ci siamo riuniti come vecchi amici al capezzale di un moribondo, con la lagrimuccia che scende e tanti ricordi che passano davanti agli occhi, per poi ripiegare ordinatamente le nostre parole e tornarcene a casa. Dentro gli sforzi che i Circoli del Manifesto in tutta Italia, e segnatamente quelli di Bologna e di questa regione, stanno facendo per tenere in vita Il Manifesto non c’è nostalgia ma fame di futuro”. Questo era allora, sei mesi fa. Quando c’era tempo per cambiare rotta. Ora non più. Il tempo è scaduto. E a noi resta solo da decidere se tornarcene davvero a casa e sognare questo brutto sogno fino in fondo, o tirare fuori qualche forza residua e inventare questo bendetto futuro.
Questo post è stato pubblicato sul blog Morningfesto il 27 novembre 2012