di Stefano Galieni
Lo scorso anno il rapporto Caritas-Migrantes (strumento fondamentale e ormai “classico” per tutti quelli che si occupano di immigrazione) era incentrato sulle tematiche della crisi. Quest’anno molte cose sono cambiate, non solo il governo. La dimensione europea della trasformazione in corso impone un ragionamento di medio e lungo respiro, chiede di guardare in prospettiva per provare a tratteggiare la composizione sociale dei prossimi decenni. Non è casuale che la chiave di volta su cui “poggia” questo 22° dossier sia il motto “Non sono numeri”, un’espressione ripresa dal discorso pronunciato da Benedetto XVI lo scorso gennaio, in occasione della Giornata mondiale del migrante.
Nell’Italia del futuro la presenza e l’ingresso continuo di uomini e donne migranti sarà una costante, come del resto in tutta l’Europa. Oggi sono oltre 33,3 milioni i cittadini migranti regolarmente presenti in Ue, il 6,6% della popolazione e sono 15 milioni e 500 mila i cittadini naturalizzati. In Italia si è superata – ed il censimento ne è la prova – la soglia dei 5 milioni, l’8,2 per cento rispetto al totale della popolazione. Per la maggior parte si tratta di cittadini comunitari, provenienti dall’est europeo, per il 47,9%. I dati, relativi al 2011, descrivono un mondo di circa due milioni e mezzo di lavoratori occupati con un incidenza del 10 per cento. Molti sono dipendenti ma sono ben 249 mila le imprese il cui titolare è immigrato. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla crescita della disoccupazione (del 12,1 per gli immigrati mentre è dell’8,0 per gli autoctoni), l’incidenza sul tasso degli infortuni, 15, 9 superiore a quello degli italiani e soprattutto i permessi di soggiorno scaduti (262.700 circa) causa soprattutto licenziamento e non più rinnovati.
Si tratta di un dato preoccupante che delinea un micidiale spreco di risorse. Lavoratori e lavoratrici, formati, spesso qualificati e specializzati, con alto inserimento sociale, che hanno in poco tempo perso il proprio status. Una parte è tornata a casa, lasciando posto a nuovi ingressi di persone che dovranno ricominciare da capo. Una parte più consistente è scivolata nell’irregolarità, nel mondo del lavoro nero, del lavoro grigio e dell’economia sommersa. Si tratta in molti casi di persone che avevano ricostruito in Italia anche il proprio nucleo famigliare. L’esistenza di una serie di normative contraddittorie e farraginose è alla base di numerose contraddizioni. Le difficoltà legislative in vigore fanno sì che, ad esempio, in Italia solo 56 mila persone abbiano ottenuto la cittadinanza mentre a poterla chiedere (perché residenti nel Paese da oltre 10 anni) sono molti di più. Pochi i matrimoni misti, solo 65 mila – anche se il dato è in crescita – gli studenti universitari, quasi 80 mila i nuovi nati.
Condizione irrisolta è quella dei richiedenti asilo: rispetto alle 34 mila domande presentate solo 7 mila sono state accolte. Per il resto dinieghi o permessi temporanei di protezione umanitaria o sussidiaria che mantengono chi li riceve in una condizione precaria, senza la possibilità di un reale inserimento e col timore perenne del rimpatrio. Ma al di là dei numeri, come evidenzia il dossier, ci sono due elementi che bisogna tenere in considerazione. Il primo è che i movimenti migratori sono destinati a continuare e che l’Italia resta un Paese di attrattiva per l’immigrazione. È il mercato occupazionale a richiedere manodopera flessibile, disposta a muoversi e a cambiare perennemente lavoro, ad accettare anche lavori poco graditi dagli autoctoni.
Esiste un problema demografico che incide negativamente sulla capacità produttiva del Paese e che da qui al 2065 farà sì – dati Istat – che nell’Italia della seconda metà del secolo i migranti (se saranno ancora considerati ancora tali) diventeranno almeno 14 milioni. In seconda istanza, secondo i redattori del Dossier e questo è un tema di indagine interessante, si va modificando anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica nel Paese. Dopo anni di diffidenza, immagini negative – a cui molto hanno contribuito mezzi di informazione e alcune forze politiche – si comincia oggi a registrare un’inversione di tendenza.
Se da un lato permane la convinzione che “gli immigrati sono troppi e rubano lavoro”, dall’altro appare in crescita la componente di chi non solo riconosce il valore positivo di una società pluriculturale ma ritiene anche che “gli immigrati vengono trattati peggio degli italiani”. Difficile prevedere cosa accadrà e quanto questo coincida con le modalità di superamento della crisi, ma da noi sembrano perdere terreno i movimenti xenofobi e razzisti, che cercano spazi di visibilità ma non hanno acquistato finora una propria pericolosa soggettività. Crescono invece le realtà di ricerca, di volontariato, di associazionismo e di società civile caratterizzate da una forte vocazione all’accoglienza. I prossimi anni saranno cruciali.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione il 4 novembre 2012