Oltre i luoghi comuni e la propaganda politica, Asher Colombo, nel suo recente Fuori controllo? Miti e realtà dell’immigrazione in Italia (il Mulino, 2012) indaga sulle politiche di controllo dell’immigrazione di cui i Cie sono strumenti fondamentali. Il sociologo dell’università di Bologna ci spiega come e perché si entra in un centro di espulsione.
Intervista di Leonardo Tancredi
Partiamo da Bologna, che impressione hai avuto del Cie di via Mattei?
Durante la mia ricerca ho visitato i Cie del nord, Bologna Milano Gorizia, Modena e Torino. Quello di Bologna è stato uno dei primi, circa un anno e mezzo fa, quindi mi ha fatto particolare impressione, ma non che ci fossero grandi differenze rispetto agli altri. Sono strutture abbastanza fatiscenti.
Abbiamo parlato con i trattenuti, c’erano storie molto diverse, mi aveva colpito perché c’erano relativamente poche donne, c’erano persone che venivano dal carcere, persone che dichiaravano problemi di salute non sufficientemente curati o presi in carico dalla struttura. E c’era anche chi non veniva dal carcere, mi ricordo il caso di un ragazzo marocchino lavoratore fermato in un controllo casuale e portato in questura e poi nel Cie.
Come si finisce in un Cie?
Innanzitutto la possibilità di ingresso nei Cie è molto variabile, avviene in base ai posti disponibili che sono meno non solo degli stranieri irregolari, com’è ovvio, ma anche dei posti richiesti dalle questure. Ci raccontavano gli operatori interni che a volte arrivavano persone che normalmente non vengono trattenute perché in quel momento c’era qualche posto libero, perché magari dieci tunisini erano stati rimpatriati. Le risposte della polizia su questo sono molto evasive.
Chi sono allora le persone che normalmente vengono trattenute?
C’è un’ambiguità, il Cie è una struttura per stranieri irregolari, ma di fatto non è così, non entrano gli irregolari ma quelli che hanno determinate caratteristiche: intanto sono più maschi che femmine, poi sono più frequentemente persone provenienti da paesi con i quali ci siano degli accordi di riammissione, cioè per i quali sia relativamente possibile avere i documenti per effettuare il rimpatrio. Io non mi ricordo di aver visto molti cinesi perché non esistono accordi di riammissione con quel paese quindi è poco economico trattenere un cinese perché rischi di trattenerlo per 18 mesi e invano, quindi è un costo, questo è il calcolo che fanno le forze di polizia. È un fattore di selezione non ben documentato, però è chiaramente indicato dalla differenza che esiste tra la quota di entrati tra gli irregolari per singola nazionalità e la quota di irregolari per singola nazionalità presenti sul territorio. I cinesi sono una quota modesta nei Cie ma meno modesti nel complesso delle quote di immigrati irregolari.
Terzo, entra più facilmente chi viene dal carcere dopo aver scontato la pena, ma questa è solo una forte impressione, perché le banche dati del ministero non sono tali da poter fare analisi sofisticate. La pericolosità sociale è un fattore che ha un suo peso, ma, sottolineo, lo dico in assenza di dati perché non ci sono e anche quando li chiedi c’è una resistenza. In Italia c’è una carenza di ricerca sui comportamenti e le pratiche delle forze di polizia
Si può parlare di selezione degli ingressi?
C’è una selezione in cui gioca il caso e anche il posto dove sei perché le questure che hanno sul loro territorio un Cie hanno una sorta di diritto di precedenza rispetto alle questure che non ce l’hanno. Se uno straniero irregolare viene fermato a Bologna ha più probabilità di entrare in Cie di uno fermato in provincia di Frosinone perché lì non c’è. Infatti, i dati ci dicono che il 75% degli stranieri per cui viene chiesto l’ingresso, e non per tutti i fermati viene chiesto, non entrano perché non c’è posto.
Alla luce di questo dato credi che ci sia stata una regia per stabilire i luoghi in cui doveva essere aperto un centro?
È una cosa che non mi è ben chiara. Quello che mi ha colpito è che nel ’98 quando sono stati istituiti c’è stata una forte richiesta dal territorio, emblematico il caso di Modena. Il programma di governo prevedeva che ci fosse una struttura per regione, poi non è stato così. Credo sia stato l’effetto combinato di vari fattori la disponibilità del territorio, la disponibilità di strutture, la volontà di aprirli, la disponibilità di associazioni che se ne facessero carico. I Cie sono anche abbastanza costosi, i dati della Corte dei Conti parla di 40 milioni all’anno per i 1200 trattenuti. I costi di quello bolognese sono più o meno in linea con il dato generale. Di fatto il numero dei posti è rimasto quasi invariato, anzi si è un po’ ridotto, da 1600 a 1200.
Che peso hanno i Cie nelle politiche di controllo dell’immigrazione?
Tra tutti gli strumenti di controllo in uscita è senz’altro il più efficiente da punto di vista degli effetti, più del reato di immigrazione clandestina. La percentuale più alta di espulsione tra gli irregolari rintracciati si trova tra chi entra nei Cie. Senza i quali la capacità la frequenza di espulsione degli immigrati irregolari sarebbe ancora più bassa di quello che è. In parte questo è dovuto alla selezione: entrano quelli che si sa che possono essere espulsi. I Cie sono uno strumento fondamentale, hanno un loro ruolo e infatti nessun governo ha pensato seriamente di farne a meno. L’ultimo governo di centro-sinistra sembrava che dall’oggi e il domani dovessero chiudere tutti, ma non è mai successo. L’altro strumento importante di controllo dell’immigrazione irregolare sono state le sanatorie, con un’incidenza ancora maggiore delle espulsioni. Di fatto la strada seguita nei confronti dell’immigrazione irregolare è stata duplice, da un lato regolarizzare dall’altro espellere. I numeri dicono molto più regolarizzare che espellere, perché è meno semplice e più costoso. L’espulsione viene usata presso l’opinione pubblica come prova di atteggiamento duro, ma sanno bene che è difficile che costa molto e che richiede una macchina amministrativa ben oliata.
Se rapportiamo il numero di immigrati irregolari con il numero di quelli espulsi la percentuale rimane comunque bassa
Dal ’98 al 2006 c’è stata una crescita rilevante, poco dopo l’apertura dei Cie ha toccato quasi il 50% dei rintracciati, poi è calato nel 2003 e questo calo è continuato, ancora oggi siamo tra il 25-35% di tutti i rintracciati. Quelli di questo gruppo che entrano nei Cie hanno livelli di espulsione più alti, quelli invece che prendono il 10bis, reato di clandestinità, un po’ più bassi. Ma anche negli altri paesi europei avviene lo stesso, non è facile espellere.
Nei prossimi giorni un’assemblea pubblica a Bologna chiederà la chiusura dei centri di espulsione. Ti senti di condividerlo?
Sì. L’approccio ideologico, cioè essere pro o contro, cozza contro un’obiezione: i Cie funzionano. Allora quello che cerco sono argomenti inoppugnabili dal punto di vista dell’avversario. Un elemento sul quale si potrebbe fare una battaglia per la chiusura o per la riduzione a strumento marginale è un argomento che mi sono stupito che nessuno abbia mai sollevato: nei Cie una quota rilevante di ingressi sono stranieri che hanno commesso dei reati e che sono stati in carcere, in genere hanno avuto periodi di detenzione abbastanza lunghi. Supponiamo una persona che abbia commesso una rapina, con tutte le attenuanti non passa meno di un anno e mezzo. I cie servono come strutture di trattenimento per avere il tempo di avviare la pratica di espulsione, perché non può essere avviata quando lo straniero irregolare è in carcere? Qualcuno mi deve spiegare la ragione per cui un tizio che passa un anno e mezzo in carcere si deve sorbire due mesi di Cie per una pratica che poteva essere avviata in un anno e mezzo di reclusione carceraria. Non solo, ti faccio spendere anche di meno, perché quella persona è già in carcere. Questo dipende dal fatto che ministero degli Interni e ministero della Giustizia non dialogano tra loro. Dopo di che ci sono gli altri, quelli che non hanno commesso i reati e ne possiamo discutere, ma questo non è argomento ideologico.