Poteva andare peggio. Lo sciame sismico non è ancora finito e non si sa quando finirà, ma per ora la gran parte degli edifici ha tenuto. Merito del controllo, più stringente che altrove, da parte delle amministrazioni locali e regionale sulla qualità del costruito. Partita persa, invece, sulla cementificazione e sull’edilizia industriale. Capannoni brutti, costruiti male, alcuni dei quali hanno mietuto gli unici morti registrati finora. Il contributo di Gianfranco Franz, urbanista.
Non sono un sismologo e, anzi, i terremoti mi destabilizzano profondamente, impedendomi di dormire e tenendomi in uno stato di tensione permanente, almeno per qualche giorno.
Pur non essendo un esperto ho una mia convinzione: per nostra fortuna la scossa delle 4 di mattina di domenica scorsa, arrivata a 5,9 gradi della Scala Richter, è durata molto poco, forse meno di 30 secondi. Se fosse durata il minuto cui giunsero le scosse de L’Aquila e dei grandi terremoti del nostro recente passato (Irpinia, Friuli), forse oggi piangeremmo un’altra catastrofe di dimensioni colossali.
Su questo terremoto, ancora in corso, si possono già sviluppare alcune riflessioni. Le propongo seguendo quella che a me pare possa rappresentare una gerarchia di valori.
Capannoni da quattro soldi
Una prima considerazione riguarda il numero dei morti. Il numero delle vittime è stato molto basso e sarebbe stato quasi trascurabile se quattro persone non fossero state schiacciate da un capannone industriale venuto giù come un castello di carte. Non spetta a me dare giudizi e le indagini sono già partite, ma, da architetto e urbanista posso affermare, senza timore di smentita, che l’edilizia produttiva che buttera i nostri territori, le nostre campagne e nostri paesaggi, urbani o agricoli, non solo risulta orrida e priva di qualsiasi valore estetico, ma, a quanto pare, è anche talmente utilitaristica e a basso costo da non presenta alcuna condizione di sicurezza antisismica di base. E questo è intollerabile. Un caso fortuito e disgraziato avrebbe potuto comportare il crollo di qualche elemento di capannone, ma non capannoni e coperture nella loro interezza. Cosa vuol dire? Che un intero settore dell’edilizia italiana, che ha visto arricchirsi ingegneri, geometri e produttori di prefabbricati cementizi, che ha consentito la costruzione di fabbriche e fabbrichette ovunque, con costi irrisori per le imprese (ma non per l’ambiente e le reti infrastrutturali), ha realizzato milioni e milioni di metri cubi all’insegna del più insensato risparmio e del più gretto ritardo tecnologico. E adesso mettere in sicurezza questo ‘finto’ patrimonio costerà molte risorse (che le banche difficilmente metteranno a disposizione) che si sarebbero potute spendere per l’innovazione tecnologica e produttiva. Alla classe imprenditoriale del Paese, sempre pronta a dare lezioni su tutto, bisognerà ricordare questo piccolo fastidioso dettaglio. Purtroppo, 4 morti sono troppo pochi e la cosa sarà dimenticata in fretta, colpendo probabilmente ed eventualmente le responsabilità di pochi, ma non quelle di una classe imprenditoriale che, anche nelle piccole e medie imprese, sulle quali brilla la vulgata del rapporto ‘amichevole’ fra operai e datori di lavoro, non ha mai dato troppa importanza, ad eccezione di alcuni casi di scuola, alla sicurezza sul lavoro e alla qualità del lavoro.
Le case private si salvano
Una seconda considerazione riguarda la tenuta sostanziale dell’edilizia residenziale contemporanea. Un’edilizia non certo bella, che ha fatto parlare alcuni di ‘villettopoli’ ed altri, di maggior spessore poetico, come Gianni Celati, di case dei ‘Tavernicoli’, ma certamente corretta e ben fatta. E’ un eccellente risultato e non lo si deve alle imprese edili o alla popolazione previdente e, a volte, neppure agli ordini professionali di architetti, ingegneri e geometri (che spesso lamentano gli alti costi delle norme antisismiche), bensì alle occhiute amministrazioni locali dell’Emilia Rossa. Sindaci, Province e Regione che negli ultimi 40 anni hanno fatto dell’urbanistica e dei regolamenti edilizi un fiore all’occhiello del governo del territorio. Amministratori che forse hanno perso la battaglia sul fronte dell’urbanizzazione continua e dello spreco di suolo, ma hanno vinto quella sui cosiddetti requisiti prestazionali delle costruzioni. Ed è anche merito degli Emiliano-Romagnoli se queste norme sono state accettate ed applicate, magari a malincuore, evitando le facili scorciatoie dell’abusivismo e del fai da te più stolido. Un’attenzione minore su questi temi e contesti sociali meno attenti alle ragioni del bene comune e indifferenti al rispetto delle regole e delle autorità democratiche portano, in altri territori, a bilanci delle vittime segnati da ben altri consuntivi.
Il patrimonio storico che abbiamo perso
La terza considerazione riguarda il patrimonio storico, sia quello di maggiore rilevanza, concentrato a Ferrara e nei centri maggiori colpiti dal sisma (in particolare le rocche e le chiese), sia il patrimonio storico documentale delle antiche case rurali.
Ferrara non ha subito devastazioni e crolli catastrofici e non ha perso per sempre il proprio patrimonio storico-monumentale. Ha subito una serie infinita di danni di minore entità, diffusi in gran parte del centro storico e che richiederanno comunque anni e molte risorse per essere riparati. Manca ancora un quadro certo sulle lesioni strutturali ai grandi monumenti (Palazzo dei Diamanti, il Castello, il Teatro, le grandi chiese, Palazzo Massari e gli altri palazzi di epoca estense, fra cui non pochi di proprietà dell’Università). Si sa già, comunque, che sono tanti e che dovranno essere affrontati rapidamente, sia per riportare alla piena funzionalità questi edifici, sia per garantirne la futura incolumità.
Sul territorio le cose sono andate diversamente, sia per la vicinanza all’epicentro della violentissima scossa, sia per la fragilità di quel patrimonio, che fu restaurato fra gli anni ’80 e ’90, con fondi statali e regionali, quando però le normative sismiche non erano tanto stringenti come oggi. Il recupero del patrimonio storico in Emilia-Romagna e in altre regioni del Centro-Nord è stata un’opera colossale degli ultimi 50 anni. Forse è stata una delle politiche di maggiore successo condotta da Stato, Regioni, Province e Comuni, con il sostegno di privati, del credito e delle fondazioni bancarie. Un’opera capillare e certosina, finalizzata a conservare, preservare, rimettere in uso un patrimonio sterminato, pubblico e privato, senza porre grande attenzione all’evoluzione delle conoscenze relative alla sismografia e alle tecnologie più avanzate per difendersi dai terremoti, anche per l’errata e diffusa convinzione che la Pianura Padana non è sismicamente a rischio, come altre grandi aree del Paese. Un’opera meritoria colpevolmente trascurata dal Governo Berlusconi e, di recente, anche dalle amministrazioni più illuminate, per ovvie ragioni di scarsità di mezzi economico-finanziari.
Bisogna rimettere urgentemente le mani sopra questo patrimonio per non disperdere gli sforzi del passato e per metterlo in sicurezza rispetto al rischio sismico. Il che significa investire molti milioni o miliardi di Euro. Ma significherebbe anche generare una mole notevole di lavoro esperto, sia nel settore del terziario professionale, sia nel settore edile più avanzato e specializzato. Non si farà niente di tutto questo, perché le politiche neo-keynesiane non sono nell’agenda della tecnocrazia europea (salvo quelle infrastrutturali, di cui beneficiano le imprese della filiera del cemento e i grandi gruppi industriali franco-tedeschi). E fra qualche anno piangeremo ulteriori perdite, mentre le distruzioni attuali saranno ricostruite, a costi esorbitanti, per anastilosi, dove erano e com’erano, perdendo quel carattere di autenticità che hanno avuto fino a ieri.
Case contadine addio
Le grandi case contadine della pianura meritano un altro discorso. Sono crollate per la violenza del sisma, ma anche a causa della scomparsa della civiltà contadina che le aveva prodotte. Io che viaggio in continuazione, per motivi familiari, nei territori colpiti dal terremoto vedo di mese in mese la decadenza di questo o quel casolare, di questo o quel fienile, di una grande corte e di tanto altro patrimonio minore. Se molte di queste case sono state recuperate in prossimità dei centri urbani maggiori, dove più forte è la domanda di mercato, per quelle di dimensioni molto spesso colossali disperse sul grande territorio produttivo della pianura del Parmigiano Reggiano non c’era molto da fare. Troppo grandi, troppo isolate, abbandonate da decenni. Quando in una di queste case cede una parte del tetto chi ha un po’ di esperienza può far partire il count down. In capo a pochi mesi la grande casa contadina sarà ridotta un cumulo di mattoni ed erbacce. Altre volte sono abitate da imprenditori agricoli che non hanno però i mezzi per affrontare il restauro e la riabilitazione di case e fienili di queste dimensioni. Anni fa, proprio lavorando come urbanista per uno dei comuni colpiti, Crevalcore, proposi – quasi come provocazione – di censire le case rurali più malridotte e isolate ed utilizzarle come ‘cave’ da asporto di materiale edile antico, di pregio e di qualità, da riutilizzare nel restauro delle stesse case coloniche per le quali il mercato immobiliare trovava le ragioni di un intervento di recupero e valorizzazione. Era una provocazione e nessuna normativa lo avrebbe mai permesso, ma sarebbe stato tanto sensato farlo. Credo che non ci sia nulla da fare per questo patrimonio. Quel che resterà in piedi sarà da osservare, da documentare e da vedere scomparire come tanti altre testimonianze dei nostri passati.
L’organizzazione ci salverà
Un’ultima considerazione. I cittadini emiliani stanno dando prova di grande compostezza e di grande carica vitale. Le macchine organizzative, dalla Protezione civile alle amministrazioni, alle associazioni sono tutte in movimento, rispettando la proverbiale efficienza di questo popolo e delle sue organizzazioni intermedie. Lasciata a loro la responsabilità della ricostruzione possiamo star certi del risultato finale. Per fortuna di tutti non è più al governo del Paese un pagliaccio che, delinquenzialmente e per somma inettitudine, ha imposto a L’Aquila un assurdo modello di ricostruzione, che sta uccidendo la città e la comunità aquilane, dopo aver lasciato colpevolmente il centro storico, supportato in questo dall’arroganza dell’eroe eponimo della Protezione Civile, il dott. Guido Bertolaso, nel più totale abbandono. Non accadrà questo in Emilia, non accadrà a Ferrara, dove l’Amministrazione sta già cercando di far tornare in funzione edifici civili di primaria importanza, scuole, uffici, musei, cinema, teatro, proprio per dare il segnale che la vita continua e che le disgrazie si devono affrontare con serietà e senso civico.